Un dubbio amletico attanaglia le imprese globali: sarà l’intelligenza artificiale a cambiare le imprese o saranno le imprese a dover cambiare per poter sfruttare al meglio l’intelligenza artificiale?
Nel tentativo di rispondere, bisogna dire che l’utilizzo dell’AI cresce a ritmi vertiginosi: oltre tre quarti delle organizzazioni globali, secondo McKinsey, l’adotta già in almeno una funzione aziendale. Ma il dato più interessante è un altro: solo una minoranza sta davvero raccogliendo benefici misurabili in termini di profitti. Perché? La risposta è semplice quanto cruciale: integrare una tecnologia trasformativa in un’impresa non equivale a utilizzarla superficialmente. Il valore economico nasce dalla rielaborazione dei processi, dall’evoluzione del modello decisionale, dall’investimento in talenti e governance, non dalla mera implementazione tecnica. Questo significa che quello in AI è un investimento strategico, non un progetto tecnico.
Mentre si affacciano sul mercato soluzioni sempre più evolute, emerge un elemento chiave tra le aziende (soprattutto grandi) che guidano questa rivoluzione: la leadership distribuita. I progetti non vanno più confinati nei reparti IT o R&D, ma vedono un coinvolgimento diretto del top management, fino all’amministratore delegato. In questi contesti, l’adozione dell’AI diventa priorità condivisa, abilitata da infrastrutture modulari, riutilizzabili e sicure.
Tutto questo per dire che l’adozione all’interno delle imprese dell’intelligenza artificiale, oggi più che mai, richiede anche una forte componente di intelligenza “naturale”, umana per dirla tutta. Perché a voler tradurre i primi scenari che si profilano, si evince come le imprese che riescono a scalare e a rendere profittevole l’adozione dell’AI non procedano per piccoli tentativi, ma progettino su ampia scala: non si limitano a “testare” ma a “trasformare”, e a “trasformarsi”.
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