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Calcio, Serie A: pallone sgonfiato

Fonti di ricavo unidirezionali, incapacità a fare sistema, squadre con strutture commerciali obsolete e prive di un’impostazione aziendale, contraffazione. Ecco alcuni dei motivi che non hanno permesso al calcio italiano di vincere la sfida con le altre leghe europee. Eppure…

C’erano un cinese, tre americani e un fondo speculativo. Non è l’inizio di una barzelletta, ma un quadro che regala un piccolo sorriso al calcio italiano. Prima di passare alla storia come il primo torneo interrotto per pandemia, la Serie A 19/20 aveva riacceso l’interesse internazionale sul nostro campionato. Nella lotta tra “Sua Maestà Cristiano Ronaldo” nella Juventus e l’Inter del colosso orientale Suning. Con loro hanno iniziato ad assaggiare sempre di più il nostro pallone i patron americani Rocco Commisso (Fiorentina), Joey Saputo (Bologna), Thomas Friedkin (intenzionato a prelevare la Roma dal connazionale Pallotta prima dello stop) e il fondo Elliott, che controlla il Milan – si respira aria nuova nel nostro pallone.

Il 25% delle squadre della massima serie è in mano a proprietà straniere: vuol dire nuovi modelli per ridurre in fretta il gap con i rivali europei e nuovi orizzonti dove scovare idee, sponsor e strategie. C’è speranza insomma per il nostro calcio, in attesa di capire come potrà essere smaltito il lungo stop dovuto al coronavirus. La ripartenza dovrà portare con sé i piani per recuperar il tempo perso in questi anni sul resto dell’Europa. Stadi vecchi, poco spettacolo, debiti pesanti, barriere istituzionali e una cronica mancanza di visione e collaborazione (emblematica la gestione delle prime fasi dell’emergenza Covid-19) hanno impoverito il sistema, trasformando il “campionato più bello del mondo” in un torneo in tono minore.

Ripercorrerne il tracollo è facile. Il 28 maggio 2003 il Milan, che aveva battuto in semifinale l’Inter, vinceva la Champions League superando la Juventus in finale ai rigori. Il calcio italiano dettava legge in Europa e nei bilanci, con le due finaliste ai primissimi posti tra i top club europei. Il trionfo del Diavolo non è ancora diventato maggiorenne, ma da allora tutto è cambiato. I vecchi leoni rossoneri hanno trionfato ad Atene 2007, i cugini nerazzurri hanno fatto la storia conquistando il Triplete (scudetto, Coppa Italia e Champions nello stesso anno) nel 2009/10, ma questi successi estemporanei non hanno frenato il declino. I nuovi anni Dieci sono stati segnati dal dominio della Juventus e allo stesso tempo dalla mancata qualificazione della nostra Nazionale ai Mondiali 2018: un fallimento che non si verificava da 60 anni.

TRENO PERDUTO«Il calcio italiano ha grandi potenzialità ancora inespresse, siamo una delle principali potenze del pallone mondiale per storia, tradizione e numero di tesserati, ma siamo rimasti indietro», spiega Andrea Di Biase, direttore di Calcio e Finanza, il portale che prova a spiegare ai tifosi i meccanismi economici sottesi ai 90’ di spettacolo in campo. «Inter e Milan sono state gestite con logiche mecenatistiche da Massimo Moratti e Silvio Berlusconi, le nuove proprietà hanno dovuto ricostruire i club dal punto di vista aziendale. La Juventus si è mossa con lungimiranza, pur partendo dalle ceneri di Calciopoli, ma è frenata nel suo sviluppo dal contesto». Nel frattempo, i petroldollari hanno fatto ricche Manchester City e Paris Saint-Germain, il Manchester United ha conquistato tifosi in tutto il mondo, Real Madrid e Barcellona hanno dominato in Spagna e nei conti. E in Italia? Le società hanno affidato il destino dei loro bilanci quasi ai soli diritti tv, senza diversificare le fonti di ricavo, e per di più in un campionato che ha perso progressivamente appeal.

Se la Serie A è cresciuta del 101% tra il 2009 e il 2019 fino agli attuali 1,3 miliardi di euro all’anno dai diritti tv (in attesa della corsa al triennio 2021/2014), la Premier League inglese è volata del 242% fino a quota 3 miliardi, mentre la Liga spagnola ha totalizzato 2 miliardi di introiti (+222%). «I proventi dei diritti televisivi rimangono la principale fonte di reddito dei club, in quanto rappresentano il 44% dei ricavi totali. È la capacità di attrarre interesse commerciale il fattore che distingue i club al top della classifica e quelli al fondo», si legge nell’edizione 2020 della Deloitte Money League che vede appena quattro italiane nella top 20 dei club europei per ricavi al netto del calciomercato. La Juve è la migliore della Penisola in classifica: al decimo posto con 459 milioni di euro, ma lontanissima dalle rivali per il tetto d’Europa. Il Napoli, ultimo della pattuglia tricolore, è dietro alla quarta squadra di Londra (West Ham) e alla seconda di Liverpool (Everton). In vetta alla classifica troviamo il Barcellona con 840 milioni di euro di introiti, frutto tra le altre cose di un cambiamento di approccio del club attraverso la gestione diretta del merchandising e delle attività di licensing.

INVERTIRE LA ROTTANon è semplice indicare un solo colpevole al crollo di appeal della Serie A. Il “Palazzo”, diviso da logiche egoistiche, non ha sempre saputo fare sistema, ma si è ritrovato in un quadro ingessato da norme stringenti. La legge Melandri – che nell’ultima revisione ha riequilibrato la divisione degli introiti (50% in parti uguali, il resto in base ai risultati e al bacino d’utenza) – ha finora impedito la vendita di partite in esclusiva o dell’intero campionato a una singola emittente. Per favorire la concorrenza, si è impedito ai club di massimizzare gli incassi. Se la battaglia sulla pirateria ha portato risultati importanti – sarebbero in arrivo le prime multe anche per gli utenti –, ancora poco si è fatto nella lotta alla contraffazione. Se realtà minori come Atalanta e Udinese hanno dimostrato che lo stadio di proprietà non è un’utopia, a Roma e Milano i nuovi progetti stanno incontrando enormi resistenze da parte delle autorità locali. In questo contesto, la meno colpevole è la Juventus, che ha fiutato prima di tutti il vento, investendo in un impianto e in una struttura commerciale d’avanguardia, tanto da potersi permettere, tra gli altri, Cristiano Ronaldo prima (100 milioni e 31 di ingaggio netti all’anno) e Matthijs De Ligt (85 milioni e 12 di stipendio) nel giro di due anni. L’effetto di un tale scatto in avanti è uno solo: il campionato che una volta contava “sette sorelle” pretendenti al titolo – e veniva seguito a livello globale (prova ne era la popolarità in Inghilterra del programma Football Italia) – è diventato territorio di caccia esclusivo dei bianconeri.

Nel frattempo, invece, la Premier League si è trasformata in un torneo avvincente – ha trionfato persino la cenerentola Leicester –, seguito in tutto il mondo, con partite giocate a orari ad hoc per i mercati esteri, numerose proprietà straniere e Ott come Amazon e Facebook interessati a investire sulla trasmissione dei match. A queste linee di sviluppo la Serie A è arrivata solo negli ultimi tempi: per il prossimo futuro si ragiona sui match del sabato alle 14 e alle 16, in modo da fare concorrenza alle altre leghe nel prime time di aree geografiche fondamentali come l’Asia. Il modello dominante rimane quello dei posticipi serali per favorire il mercato domestico della pay tv, con Amazon che sta ragionando sull’ingresso nel mercato italiano. E i vertici della Lega sono dovuti tornare precipitosamente in Italia a inizio marzo proprio mentre si trovavano nel continente americano per un giro di promozione tra gli Ott interessati. Nel frattempo, però, la Germania degli stadi sempre pieni e dei conti in costante crescita nel prossimo bando inserirà più partite in chiaro e cancellerà il match del lunedì sera.

DOVE FARE GOL«Sarà difficile smuoversi dal tetto di un miliardo di euro per i diritti domestici nell’asta 2021/24 e il canale gestito direttamente dalla Lega non è la soluzione», aggiunge Di Biase. «Il vero terreno di conquista è l’estero. La Premier è divertente e parla inglese, la Liga ha avuto per dieci anni i due migliori del mondo, Messi e Cristiano Ronaldo, e può contare sul bacino sudamericano di lingua spagnola. L’Italia oggi potrebbe ancora sfruttare la presenza di Cr7 e gli investimenti dell’Inter su campioni conosciuti come Eriksen e Lukaku, però ha tanti limiti: stadi vecchi e – in molti casi – vuoti, anche se gli ultimi dati di affluenza mostrano un’inversione di tendenza. Nell’epoca del calcio unito al management, una delle figure più discusse, rimane Ivan Gazidis, Ceo del Milan chiamato a risanare i conti, criticatissimo per la cura dimagrante imposta al bilancio rossonero. I tifosi non sono pronti a ragionare col portafoglio? «Per fortuna si vedono dei manager alla guida dei club, in parte per l’arrivo di proprietà straniere e in parte per l’investimento su figure provenienti da altri Paesi o da altri settori merceologici», conclude il direttore di Calcio e Finanza. «Tuttavia, è difficile rilanciare la parte commerciale di un grande club come il Milan senza risultati sportivi. Dal nostro osservatorio, a metà tra tifosi e addetti ai lavori, si comprende che il pubblico ha compreso l’importanza delle dinamiche economiche. Il guaio è che quando si parla di calcio bisogna vendere un’emozione, non un prodotto».

*Articolo pubblicato su Business People, aprile 2020

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Un pre-partita allo stadio Giuseppe Meazza di Milano. San Siro è al centro di un confronto tra il Comune e le due società di Serie A, Milan e Inter, che vorrebbero costruire un nuovo impianto per aumentare le fonti di ricavo (foto Getty Images)