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Lavoro

Licenziamenti, la fine di un tabù?

Buona parte dei dipendenti tricolori attende col fiato sospeso la scadenza del “blocco” per sapere cosa ne sarà del proprio futuro professionale. Se non altro, però, tra i retaggi che la pandemia porterà via con sé, pare ci sarà anche lo stigma che nel nostro Paese da sempre accompagna chi perde il lavoro

Se coronavirus, pandemia e lockdown sono state le parole più googlate del 2020, c’è da immaginare che per quest’anno sul podio ci saranno “lavoro”, “licenziamento” e “smart working”. Non è pessimismo, ma una lettura consapevole dei dati diffusi nelle ultime settimane da organismi e osservatori italiani e internazionali che guardano ai mesi a venire come a un momento molto delicato.

In Italia incombe minacciosa la scadenza del blocco dei licenziamenti: alcune stime parlano di oltre un milione di nuovi disoccupati dopo quella data. Già durante la fase per così dire “protezionista” la scure sul mercato del lavoro è calata pesantemente: l’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (Oil) ha calcolato che nel 2020 a causa del Covid è andato in fumo l’8,8% delle ore lavorate a livello mondiale, pari a circa 255 milioni di posti full time. Si tratta di una perdita di 3.700 miliardi di dollari, superiore di quattro volte a quella registrata nella crisi finanziaria del 2009.

Effetto Covid-19 sul mercato del lavoro in Italia

Solo l’Italia, secondo le rilevazioni diffuse a febbraio dall’Istat, ha bruciato 420 mila unità rispetto allo stesso periodo del 2020, e un dato ancora più preoccupante è l’aumento degli inattivi, cioè della forza lavoro che al lavoro ha rinunciato: sono 150 mila in più rispetto all’anno scorso. Secondo il Cnel, a essere colpiti nel nostro Paese sono stati circa 12 milioni di lavoratori, interessati da una riduzione dell’orario parziale o totale, in base al settore di attività, e che hanno avuto accesso alle misure di sostegno al reddito varate dal Governo. Lavoratori autonomi, impiegati di pmi, precari che guardano con apprensione ai mesi che verranno. Come se non bastasse, le stime della Commissione Europea non sono incoraggianti per quest’anno, tanto da aver rivisto al ribasso le quote di crescita del Pil nel 2021 e 2022. L’occupazione, in termini di ore lavorate, tornerà ai livelli pre-Covid solo nel 2023 e anche il numero degli occupati scenderà ulteriormente dello 0,9% (dati Bankitalia).

Peserà la chiusura di aziende che la sospensione dei licenziamenti e le misure di sostegno (Cigs e Cigo) ha mantenuto in un limbo finanziario in questi ultimi mesi, e che nemmeno la proroga degli aiuti di cui il Governo sta discutendo in questi giorni potrà salvare, condizionata come probabilmente sarà, ad un’effettiva capacità di recupero di redditività. Sarà una folla mai vista quella che dovrà “rimettersi in gioco”, come si usa dire, ma che di giocare avrà davvero poca voglia.

Meno pregiudizi per chi perde il lavoro

In compenso; il “mal comune” se non è proprio il proverbiale mezzo gaudio, almeno sta contribuendo a scardinare dei pregiudizi: il licenziamento è vissuto sempre meno come uno stigma da parte di chi lo subisce. Lo rivela un’indagine pubblicata da LinkedIn, svolta su un campione di 2001 adulti italiani, licenziati prima o durante la pandemia da Covid-19. Ben il 50% degli intervistati ritiene che l’ondata di licenziamenti dell’ultimo anno abbia mitigato l’impatto negativo sulla persona (la perdita del lavoro viene assimilata a un lutto, sotto il profilo psicologico): si fanno ancora i conti con stati d’animo come imbarazzo (28%) e depressione (25%), con la difficoltà ad ammettere di esser stati licenziati con i familiari (61%) e con la paura di avere meno chance di trovare un altro impiego (62%) rispetto a chi ha un contratto di lavoro. Ma in generale, il 58% ha dichiarato di non giudicare male chi ha subito un licenziamento, e di sentirsi più empatico (57%). Etichette negative, relative allo scarso impegno, all’incapacità e all’inefficienza di chi veniva licenziato sembrano interessare oggi solo mediamente il 20% degli intervistati. Eppure, da parte di chi dovrà riproporsi in un mercato del lavoro sempre più competitivo, emerge la paura di non essere all’altezza: il 62% del campione si sente svantaggiato, sconfitto di fronte al rifiuto di una candidatura (28%), preoccupato di non trovare il giusto lavoro (38%), e sono ancora molti (41%) coloro che rinunciano in partenza a candidarsi per un posto, non ritenendo di possedere le qualità necessarie. È comprensibile, soprattutto considerando che lo sguardo dei potenziali datori di lavoro su chi è stato licenziato viene percepito come più severo dall’81% degli intervistati. Un sospetto che continua a pesare nel vaglio delle candidature e delle selezioni, nonostante le trasformazioni nel mondo del lavoro a causa del Covid abbiano ridisegnato competenze, skill, priorità un po’ in tutti i settori.

Articolo pubblicato su Business People, marzo 2021

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