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Utili: prendete e dividetene tutti?

È vero, la pandemia ha messo molte imprese in difficoltà, ma per altre è stata sinonimo di fatturati in crescita. Ecco quali settori hanno visto lievitare le loro entrate e, soprattutto, chi ha scelto di reinvestire almeno in parte queste risorse per il bene comune

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Sulle grandi crisi qualcuno ci guadagna sempre. I due anni di pandemia alle spalle rilasciano ancora code lunghe di domande e tentazioni di trovare risposte agli inevitabili bilanci. Il primo, istintivo, è capire chi abbia visto crescere i propri fatturati e profitti. Il secondo, razionale, è sapere se li abbiano reinvestiti in azioni buone per altri. Proviamo a fermarci un istante e a pensare che cosa, realmente, sia esploso come forma di consumo dalla pandemia in poi. Sì, le mascherine; sì, la fruizione dei contenuti on demand tra cinema e intrattenimento (solo a fine 2020, Netflix aveva già registrato un +24% di profitti); sì pure agli acquisti online (Jeff Bezos, che vuol dire Amazon, nei primi 21 mesi di pandemia aveva già messo in tasca un surplus patrimoniale di 81,5 miliardi di dollari, stando ai dati di Oxfam e – questo numero dice già molto sulle diverse abitudini spinte dalla pandemia – nei soli primi cinque mesi del 2020 i nuovi consumatori italiani di prodotti online erano schizzati a oltre 2 milioni, rispetto ai soli 700 mila medi del 2019).

La risposta è nel meeting

La risposta, ad ogni modo, è un’altra. La risposta è Zoom, lasciando perdere le solite classifiche dei dieci super ricchi al mondo che allargano di anno in anno la forbice delle disparità. Dietro il nome della piattaforma che ha di colpo preso il sopravvento sulle nostre vite private e lavorative c’è Eric Yuan Zhang, a capo della regina delle video conferenze con sede in California: la sua ricchezza è lievitata del 77%, fino a 8 miliardi di dollari, già durante la pandemia. Mentre dichiarava di essere stato colto lui stesso dalla Zoom Fatigue per l’eccessiva esposizione a riunioni di lavoro, nel 2021 – quando i dati iniziavano già a segnare una retromarcia rispetto all’utilizzo imprevisto e smodato della piattaforma da parte del mondo intero – Zhang stava già ragionando su nuove funzionalità della sua creatura, nella speranza di creare quello che viene considerato l’ufficio ibrido.

Dati alla mano, tra ricavi e profitti, per il 2021 e 2022 Zoom ha sempre segnato ottime performance e valori in salita a livello finanziario ma, progressivamente, il numero di abbonati è sempre andato in controtendenza. A fine 2021, comunque, aveva già registrato sei volte in più gli abbonati del 2020 mentre il fatturato annuo era quadruplicato a 2,65 miliardi di dollari. E qui arriva la voglia di chiedersi se parte di tanto profitto sia stato reinvestito da Zoom a scopi collettivi o comunque per progetti esterni, a vantaggio comune. Delusione totale. L’unico atto di gentilezza uscito dal colosso di San José è stato aver tolto il limite dei minuti massimi di collegamento a favore di riunioni organizzate da istituti scolastici primari e secondari in giro per il mondo. Peccato l’abbia fatto solo per pochi mesi. All’inizio della pandemia, già ai primi giorni di marzo 2020, Zoom decise infatti di revocare temporaneamente il limite di tempo di 40 minuti per Zoom Meetings (con tre o più partecipanti) supportando le scuole che fornivano servizi didattici in un gruppo selezionato di Paesi. Con quale criterio li abbia selezionati non è dato sapere, ma un’idea possiamo farcela: tutti Stati ricchi, produttivi, potenzialmente acquisibili come clienti, nemmeno uno di loro che avesse a che fare con aree geografiche in difficoltà economica o sociale; in ogni modo la gratuità andò ad Australia, Austria, Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Hong Kong, India, Irlanda, Israele, Italia, Corea, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Romania, Svizzera, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, Stati Uniti.

Il gesto durò solo fino a giugno 2022, quando il Ceo di Zoom fu pronto a rimarcare il perché dello stop: «Durante la pandemia abbiamo prorogato il programma per tre volte, in quanto molti studenti stavano ancora seguendo le lezioni da casa, ma ora, a livello globale, la stragrande maggioranza degli studenti è tornata alla didattica in presenza. Pertanto, sulla base di questi cambiamenti, Zoom ha deciso di porre fine all’iniziativa». Come non pensare che Zoom lo abbia fatto solo per incentivarli all’utilizzo della piattaforma nella speranza di renderli dipendenti?

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Migliori profitti, grandi monopoli, buone azioni

Chi ha davvero sbancato in pandemia sta dietro i grandi monopoli del settore farmaceutico, alimentare, energetico. Dagli Stati Uniti, uno di questi è Cargill, che opera nel commercio di cereali e semi oleosi, ma anche nella produzione di ingredienti alimentari (ad esempio amidi, dolcificanti, addensanti), di mangimi, di cacao e di prodotti derivati così come di carni. A livello mondiale controlla il 70% del mercato e nel 2021 ha segnato il record massimo di profitto di tutta la sua storia: 5 miliardi di dollari di utile netto. E pensare che è stata fondata nel 1865. Buona la notizia che si estrapola da una rassegna stampa internazionale: durante la pandemia Cargill ha reinvestito parte degli utili per attività di supporto e sollievo ai malati di Covid. Ha donato 35 milioni di dollari attraverso reti di partenariato, ma ne ha redistribuita una parte anche tra i propri dipendenti.

In generale, il 2020 della pandemia è stato l’anno felice per le websoft company – cresciute del 19,5% –, per la Gdo – cresciuta dell’8,5% grazie anche al boom delle spese online aumentate del 115% solo in Italia – e per l’alimentare, con aumenti medi di circa l’8%. Anche i videogiochi, a livello mondiale, hanno messo in cassa fatturati record: su tutte la Nintendo, con quasi il 40% in più degli anni precedenti e con un +38% solo nel 2020. Già dal 2021 era iniziata la discesa e per il 2022 sembra verrà rispettata la previsione di calo del fatturato pari a quasi il 30% rispetto ai due anni di pandemia. Per caso è stato reinvestito qualcosa a scopo benefico o comune? Super Mario, a quando pare, ha detto no.

Sempre in tema di videogiochi, e sempre dal Giappone, Capcom invece fa notizia: a marzo 2022, con entrata in vigore dal 1° aprile scorso, ha annunciato di voler aumentare del 30% gli stipendi dei propri dipendenti in Giappone dopo cinque anni consecutivi di utili da record grazie anche al periodo di pandemia; offrirà anche premi produzione extra per i collaboratori, in segno di restituzione. Ancora nessuna notizia trapela per le altre divisioni in Occidente.

E in Italia facciamo i buoni?

C’è speranza in giro, se si guarda alle nostre pmi. A Rivoli, in provincia di Torino, la Reynaldi lavora in campo cosmetico con un’azienda familiare che poggia i propri bilanci sull’etica, al punto che la Commissione Europea l’ha segnalata recentemente in un documento delle best practice. Nata nel 2000 in soli 60 metri quadri e un dipendente, oggi di metri ne conta 7.500 e di dipendenti 75. La Reynaldi ha iniziato in piena pandemia a restituire ai propri collaboratori che, rispetto al settore, hanno già sti-pendi superiori di quasi il 4%.
Marco Piccolo, che gestisce l’azienda con la madre e il fratello, ha le idee chiare su questa politica: «Noi da due anni abbiamo deciso di destinare una quota degli utili ai collaboratori, soprattutto in questo anno abbiamo definito in Cda che gli utili servono per custodire l’azienda, per mantenerla solida e per essere solidale un’azienda deve prima essere solida. Quindi, fintanto che l’azienda ha bisogno, i soldi restano in azienda ma, se i soci decidono di dividere gli utili, a quel punto metà vanno ai soci e metà ai collaboratori. L’utile è il successo dello sforzo di tutti, è giusto che tutti partecipino. I nostri collaboratori ricevono lo stipendio, gli straordinari, i premi di produzione concordati coi sindacati e metà degli utili distribuiti. È un riconoscimento, non è un senso di dono né di gratuità. È una restituzione per lo sforzo delle persone, è un segnale per dire che non esiste più l’imprenditore da un lato e i dipendenti dall’altro; esistono piccole imprese in cui ci sono collaboratori – li chiamiamo così perché i dipendenti eseguono gli ordini, i collaboratori contribuiscono al successo generale – che lavorano gomito a gomito con le difficoltà quotidiane in mezzo a una dimensione di mercato da tempo ormai globale e di aziende flessibili».

Restando sempre in Italia, ma aumentando notevolmente le dimensioni di impresa, anche Coca-Cola lascia un segno meritevole. Da ottobre, i collaboratori di Coca-Cola HBC Italia ricevono un bonus di 800 euro che possono spendere in servizi attraverso la piattaforma di welfare aziendale; il contributo supporta anche l’eventuale rimborso delle bollette di acqua, luce e gas, stando al via libera dell’Agenzia delle Entrate, ma copre anche buoni carburante, rimborsi per spese scolastiche o di assistenza e per attività ricreative. Una politica che era già iniziata dopo la pandemia, per quanto non direttamente legata a un reinvestimento di utili, ma che si colloca in una logica sensata di sostegno ai lavoratori. Ce lo conferma Emiliano Maria Cappuccitti, People&Culture Director Coca-Coca HBC Italia: «Nel 2020, alla luce dell’emergenza sanitaria, abbiamo messo a disposizione dei colleghi uno sportello di supporto psicologico, un Employee Assistance Program (EAP), dove i dipendenti e i loro familiari potevano ricevere aiuto in riferimento a questioni personali e lavorative e training dedicati ai manager per fornire loro le competenze necessarie a monitorare e salvaguardare il benessere psicofisico del team. L’iniziativa del bonus, quindi, si va ora ad aggiungere a un più ampio piano di welfare aziendale che prevede ad esempio almeno 12 giorni di smart working al mese e un Galateo dello smart working per guidare i colleghi sulla corretta gestione e organizzazione del lavoro da remoto e anche alle diverse misure introdotte durante i mesi più difficili della pandemia che hanno stravolto le abitudini lavorative e di vita di tutti noi. In Coca-Cola HBC Italia ci impegniamo ogni giorno per ascoltare i bisogni dei nostri collaboratori e considerare il loro benessere un fattore fondamentale. In un contesto economico particolarmente difficoltoso per aziende e cittadini, che in questa fase dipende dall’aumento dei costi delle materie prime e dell’inflazione, abbiamo scelto di continuare a dare un segnale di vicinanza ai nostri collaboratori».

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Il passato è passato

Se la pandemia ci avesse insegnato che il profitto può diventare sostenibile, saremmo molti passi avanti. Ci sarebbe andata bene anche se avesse insegnato che la sostenibilità può diventare profittevole. Dai riscontri sulla cultura aziendale che si respira nel nostro Paese, a quanto pare, le azioni di solidarietà o redistribuzione di utili sono alquanto rare. Ce ne sono – è innegabile e di certo molte sfuggono alla cronaca – ma ce ne vorrebbero di più e con una continuità diversa, al di là delle emergenze. Tempo fa mi segnai su un foglio, messo da parte per quando sarebbe servito, l’intervento di Claudio Muruzabal, Presidente SAP per il Sud Europa, Medio Oriente e Africa. Ora quella frase serve più che mai. «Prima della pandemia, molte aziende potevano cavarsela con un approccio vecchio stile alla CSR e a come coinvolgevano i propri dipendenti. Scrivevano bei rapporti e dicevano cose interessanti su come essere un’organizzazione socialmente responsabile. Creavano manifesti che proclamavano visioni e valori ambiziosi, ma non li vivevano ogni giorno. Cosa intendo dire con questo? Sappiamo che il mondo del business è cambiato. Le aziende che vogliono avere successo nei prossimi dieci o vent’anni sanno che, per creare valore a lungo termine, devono allineare i propri obiettivi con quelli della società in cui operano. Devono abituarsi all’idea di lavorare non solo per i loro azionisti, ma anche per i dipendenti e le loro comunità, oltre che per il pianeta. I giorni in cui si cercava il guadagno a breve termine a scapito del valore a lungo termine si stanno rapidamente allontanando nello specchietto retrovisore».

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