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Crescere a dispetto di…

È il mantra che impera in Unilever Italia, in base al quale non ci si può aspettare che le cose accadano grazie a qualcosa o a qualcuno, ma malgrado le difficoltà. E per farlo si innovano i prodotti, si punta sulla qualità e si ascolta sempre e comunque il consumatore

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Nuovi prodotti, focalizzati sulle expertise nazionale e internazionale, e ulteriori investimenti in Italia. Si riassume in queste poche parole la strategia che sta portando Unilever fuori dalle secche che impantanano l’economia del nostro Paese. Ne è convinto Angelo Trocchia, presidente e a.d. della filiale italiana della grande multinazionale angloolandese dal marzo 2013, perché solo dando nuove motivazioni d’acquisto si riattiveranno i consumi. Conditio sine qua non affinché il Paese tutto possa tornare a crescere. Magari ispirandosi a quello che lui stesso definisce il “modello Israele”, dove ha diretto la filiale locale e imparato che nel fare business la caparbietà paga e gli errori sono delle opportunità che la sorte ti offre per continuare a crescere.

Cominciamo subito col parlare di Expo. A Milano si è in piena Esposizione Universale di cui voi, come Algida, siete Official ice cream partner, una scelta che avete abbracciato con convinzione quando ancora si parlava dell’evento con scetticismo. Una prima impressione? Come pensate possa evolvere la manifestazione?Considero Expo una grandissima opportunità per Milano e per l’intero Paese. I numeri parlano chiaro: 200-300mila presenze nei fine settimana. Oltretutto, esiste una certa contiguità tra il tema scelto per la manifestazione e il programma di sostenibilità messo a punto da Unilever. Anzi, sono convinto che l’Expo debba trasformarsi in un momento di riflessione intorno a questi argomenti. La decisione, poi, di aderire come Algida, si deve al fatto che si tratta di un brand da 70 anni nel cuore di tutti gli italiani: quale modo migliore per festeggiare questo compleanno? Casa Algida e il Magnum Store stanno registrando un gran numero di contatti e da giugno in poi abbiamo in programma seminari e tavole rotonde sui temi dell’approvvigionamento di materie prime sostenibili, della food security e delle donne come motore del cambiamento, dove inviteremo personalità esterne all’azienda a confrontarsi con noi su argomenti legati al tema centrale dell’alimentazione e dello sviluppo sostenibile.

PARTI POLITICHE, SOCIALI E INDUSTRIALI DEVONO LAVORARE PER RIMETTERE IN MOTO IL PAESE

C’è chi sostiene che lo scetticismo verso l’Expo sia sintomatico dell’atteggiamento, tutto italiano, in campo economico per cui si vede sempre il bicchiere mezzo vuoto. L’Esposizione può costituire anche un momento di riflessione per far ripartire il Paese?Certamente, ma non si può neanche pensare che sia la soluzione di tutti i mali. Vede, io sono rientrato in Italia due anni fa con l’idea che ognuno debba dare il suo contributo, per questo sono convinto che se è vero, com’è vero, che veniamo da anni indubbiamente difficili, dall’altro ritengo che a un certo punto bisogna decidere se continuare a guardarsi alle spalle e tergiversare oppure cercare di capire cosa fare per andare avanti. Alcuni segnali positivi ci sono: negli ultimi tre anni i mercati italiani in cui Unilever opera hanno fatto sempre registrare numeri negativi, oggi lo sono ancora, ma il gap ormai è vicino allo zero. È chiaro, però, che questo timido miglioramento va supportato da una decisa ripartenza dei consumi. Parti politiche e industriali, finanche quelle sociali, devono lavorare per far sì che questa macchina si rimetta in moto, provando a guardare quanto c’è di positivo per intraprendere qualcosa di nuovo. Anche noi abbiamo sofferto, e non poco. Basti pensare che il mercato del gelato, che per Unilever è molto importante, negli ultimi due anni ha fatto registrare flessioni intorno al 7%, ma anziché stare a guardare, l’anno scorso abbiamo fatto una profonda riflessione ed elaborato un piano, in accordo con l’Headquarter, a quattro anni per immettere nuove energie nel sistema con corposi investimenti e innovazioni di prodotto, così siamo andati a scovare nuove occasioni di crescita.

Quindi, per movimentare il carrello della spesa, occorre offrire nuove occasioni di acquisto al consumatore?Innanzitutto bisogna ascoltarlo con più attenzione, e poi offrirgli maggiore innovazione. Come azienda di marca questo è uno dei nostri ruoli primari. Per fare un esempio, l’anno scorso abbiamo introdotto una novità nel campo della maionese Calvé, un prodotto storicamente quasi impossibile da innovare, invece ci siamo riusciti crescendo di colpo del 4% a fronte di un mercato che perdeva il 10%. È la conferma che il consumatore italiano è attento alle novità, sia in termini di prodotto, ma anche sotto il profilo esperienziale. Perché per fare innovazione occorre andare a toccare anche aspetti emotivi. Come abbiamo fatto con i nostri cinque Magnum Store (Roma, Milano, Napoli, Venezia e Firenze). Piace il fatto di poter “costruire” il proprio gelato tra 22 diverse tipologie, tanto che i ragazzi finiscono per postare la foto del proprio Magnum sui social due secondi dopo averlo acquistato. Ci sono persone che fanno anche un’ora di macchina per raggiungere uno store, significa che abbiamo toccato le corde giuste.

Ho letto che, secondo lei, bisognerebbe dare al consumatore la possibilità di personalizzare il prodotto. In che modo?Oggi il consumatore è molto più stressato economicamente, ma anche più attento e consapevole. Questo non deve essere visto come un problema, ma come una sfida, il che può essere fatto in due modi: realizzando prodotti che vanno incontro alle sue aspettative e creando contesti in cui si senta partecipe. Per esempio, noi abbiamo lanciato un sito, vistochebuono.it, che dà la possibilità di parlare con un nostro cuoco e ricevere ricette e consigli. In questo modo, nostri prodotti come il Cuore di bordo Knorr o la maionese Calvé perdono la loro connotazione tipicamente industriale per diventare ingredienti che ciascuno può personalizzare. C’è quindi una combinazione tra prodotto, ascolto e supporto. Il consumatore non vuole più essere un puro fruitore di messaggi pubblicitari o di prodotti, ma chiede un ruolo attivo. È l’intero paradigma che sta cambiando.

Le passioni di Angelo Trocchia

Da dove arrivano gli input per questa evoluzione?In Unilever abbiamo quattro categorie diverse, in ognuna delle quali attuiamo strategie specifiche. Sul food, come abbiamo visto, puntiamo ad andare sempre più verso il consumatore. Nell’home care, invece, abbiamo per esempio lanciato una linea di ricaricabili a marchio Svelto: in sostanza si compra la bottiglia una volta sola e poi si ricarica. All’inizio c’era scetticismo, e invece è già una linea completamente satura. Passando al gelato (una delle categorie per noi più importanti), per Cornetto l’anno scorso siamo tornati a un tipo di campagna pubblicitaria che riprende il tema tradizionale della spiaggia e dell’amore. Il richiamo alla tradizione, qui, è fondamentale, perché tutte le ricerche indicano che il consumatore tipo non vuole che il Cornetto subisca cambiamenti. All’opposto di Magnun che viene vissuto come un brand che fa tendenza, ed entro questa logica si rinnova ogni anno, come se proponesse una nuova linea di moda. Ogni marchio ha la sua storia che nasce da una combinazione tra l’ascolto del consumatore e l’analisi di trend, in un mix tra global e local, perché siamo una multinazionale con fortissime radici sul territorio. Questo ci dà la scala, il fatto di poter utilizzare tutta la potenza delle linee internazionali, ma tradotta nel contesto locale. Credo che la nostra forza stia proprio nella combinazione di queste due dimensioni.

Avete un gruppo di marchi al 90% globali e al 10% locali. Quanto hanno inciso quelli locali sul fatturato di 1,1 miliardi del 2014?È chiaro che i brand che hanno una lunga storia in Italia hanno un peso importante. È difficile stabilire se Algida sia locale o globale, perché è entrambe le cose, così come Svelto. Direi che la nostra forza consiste nel valorizzare la storia dei nostri marchi in Italia e allo stesso tempo sfruttare la scala internazionale della nostra azienda per far continuare a crescere i brand nel nostro Paese.

In effetti, il consumatore difficilmente ha la percezione che dietro prodotti a marchio Algida piuttosto che Calvé e Knorr, Svelto e Mentadent, oltre a Lysoform, Lipton e Dove, ci sia un’unica azienda.Va bene così, il driver principale deve essere il brand: il consumatore deve amare il marchio e identificarsi con quell’esperienza. Detto ciò, stiamo comunque lavorando per aumentare la visibilità di Unilever: da quattro anni su tutte le confezioni c’è la U, così come le nostre campagne si concludono con la U, perché così facendo vogliamo assicurare ai nostri clienti che il prodotto acquistato risponde agli obblighi di sostenibilità e responsabilità che Unilever si è data a livello globale. È, come dire, un valore aggiunto.

È vero che state decelerando sul food perché meno profittevole? So che lei è stato il “manovratore” della cessione di Findus e altri marchi di surgelati all’inglese Birds Eye Igloo Group.La strategia di Unilever mondo negli ultimi anni ha puntato molto su personal e home care, come reazione alla crisi, ma il food rimane un’anima importante dell’azienda e qui si è cercato di concentrare il portafoglio sui marchi e le categorie più strategiche per l’azienda in tutto il mondo. Algida, Lipton e Knorr ne sono un esempio. Un altro fronte sono le geografie: l’Europa in questo momento riacquista importanza, perché Cina e Brasile crescono meno di prima. È vero, ho seguito la cessione di Findus prima di trasferirmi in Israele, dopo averlo gestito per due anni: era un business validissimo, ma il frozen food era attivo solo in Italia e cederlo ha aiutato a rifocalizzarci. Al contrario, con Svelto siamo entrati nel mondo delle lavastoviglie, un settore in cui all’estero Unilever è forte. L’altro lancio che stiamo seguendo è quello di Zendium, un brand dell’oral care che arriva dai Paesi scandinavi ed è già stato lanciato con successo in Francia. Insomma, le cessioni sono servite a ristabilire le priorità per reinvestire ancora di più in ambiti in cui abbiamo una forte expertise da valorizzare.

A proposito di investimenti, Unilever ha quattro stabilimenti in Italia, chi produce cosa?Svelto e Coccolino sono realizzati nella fabbrica di Pozzilli, vicino a Isernia, un insediamento su cui abbiamo investito moltissimo in termini di strutture e formazione, e che vanta il primato di efficienza di Unilever a livello europeo. A Casalpusterlengo produciamo l’home care, a Caivano – in provincia di Napoli – è affidata la produzione dei gelati, il 20% dei quali va all’estero, mentre a Sanguinetto (Verona) c’è tutto il food. Nel complesso Unilever impiega in Italia 3 mila persone. Come può immaginare, non si dorme (ride). Cosa non la fa dormire? Il fatto di dover assicurare che questa azienda cresca, perché un’azienda che non cresce non ha futuro. È questa la vera sfida: lo sforzo costante di pensare a nuove opportunità di business, così sono nati i Magnum Store e il sito di ecommerce appena inaugurato. Pensi che lo scorso gennaio abbiamo organizzato la tradizionale riunione di inizio anno con tutti i dipendenti comunicando l’intenzione di muoverci non per crescere “grazie a”, ma farlo piuttosto “a dispetto di”. Ormai è il nostro motto aziendale, perché non ci si può aspettare che le cose accadano da sole, bisogna ingegnarsi per farle accadere.

NULLA VA DATO PER SCONTATO. LA PRESENZA SUL TERRITORIO VA CONQUISTATA

È unanimemente riconosciuto che il consumatore italiano sia un po’ più evoluto della media europea in fatto di cosmesi e personal care, così come siamo più esigenti nel food. Come Unilever Italia dovete faticare più dei vostri colleghi per farvi spazio?Non direi, avendo lavorato in Olanda, Repubblica Ceca, Israele, so per esperienza che ogni Paese ha le sue complessità, fatto salvo Israele in cui se sei in grado di lavorare in quel contesto, ipercompetitivo e perennemente alla ricerca di soluzioni pressoché impossibili, tutti gli altri risultano una passeggiata (ride). Ogni territorio ha una sua specificità che va semplicemente decifrata e interpretata per poter agire di conseguenza. Per esempio, è vero che noi italiani siamo più esigenti verso i prodotti di bellezza, e lo abbiamo sperimentato di recente col fortunato rilancio di tutta l’area Dove-creme, ma è anche vero che – proprio in virtù di ciò – il settore ha risentito meno di altri della crisi. Lo stesso dicasi per il food e i gelati, perché esiste un livello di amore per la cucina e il cibo tale per cui gli italiani si rendono perfettamente conto che, per quanto industriali, i nostri prodotti hanno un’attenzione alla qualità spesso superiore a certi alimenti artigianali o pseudo tali. La discriminante, come vede, rimane sempre e comunque la qualità di ciò che si propone, e Unilever su questo fronte esercita un controllo serratissimo sia sulle materie prime che sulle fasi di lavorazione.

Qui volevo arrivare… Il vostro Sustainable Living Plan, lanciato nel 2010, prevede di raddoppiare in dieci anni il fatturato mondiale dimezzando allo stesso tempo l’impatto ambientale e migliorando le condizioni di vita di milioni di persone. Come lo state applicando in Italia?Si tratta di un obiettivo che sottolinea alcuni elementi importanti. Innanzitutto, come dicevo, l’importanza strategica della crescita sostenibile ovvero non a scapito del pianeta, della salute dei consumatori e della popolazione mondiale. Come? Intervenendo in primis su materie prime, fabbriche e logistica. Oggi il 55% delle nostre materie prime proviene da fornitori sostenibili, ma l’obiettivo è raggiungere il 100%. Le nostre fabbriche hanno un piano dettagliato di riduzione del consumo di acqua ed energia, sono autosufficienti per la produzione di energia grazie a impianti di cogenerazione, e non mandano alcun rifiuto in discarica in virtù di sofisticati impianti di differenziazione. Poi c’è tutto il piano relativo alla logistica, in base al quale ci serviamo solo di camion a basse emissioni, mentre per i gelati siamo gli unici al mondo a esserci affidati al trasporto via rotaia, abbattendo i costi annuali del 6% e riducendo sostanziosamente l’emissione di CO2. A ogni Paese è stato affidato un target, così come a ogni stabilimento, consideri che anche una quota parte del mio stipendio è legata al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità… Il piano prevede anche di migliorare la vita dei consumatori, reali e potenziali: stiamo lavorando in alcune zone dell’Asia e dell’Africa, in Italia collaboriamo con Save the children. Insieme a loro, per esempio, abbiamo aperto lo Spazio Mamme a Roma. L’impegno sociale continua anche con Dove, grazie a un progetto promosso con le scuole di Milano e Roma per affrontare un tema molto sentito come quello dell’autostima nei ragazzi fino a 14 anni.

Rientra anche in quest’ottica una sua dichiarazione secondo la quale è dovere delle multinazionali investire per stimolare la ripresa dei Paesi dove sono presenti? Per questo avete costituito Unilever Foundry, piattaforma internazionale studiata come punto di incontro per le collaborazioni fra start up e i suoi 400 brand, collegata a Unilever Venture, che finanzia i progetti più interessanti?Con Unilever Foundation gestiamo tutti i più importanti progetti di charity e sostenibilità sociale a livello globale e questa si focalizza principalmente nei Paesi in via di sviluppo. Mentre con Unilever Foundry in tutto il mondo puntiamo a stimolare l’universo delle start up a proporre idee interessanti, che aiutino i nostri brand così come i giovani. A Cannes verranno premiate le proposte migliori, che potranno eventualmente essere finanziate da Unilever Venture Capital. Penso che in questo campo un’azienda come la nostra possa e debba dare un grande contributo.

Che cosa significa essere un manager di una multinazionale come Unilever? L’esperienza internazionale è una sorta di lente di ingrandimento per capire meglio il business locale?Devo dire che io sono arrivato in Unilever un po’ per errore, quasi per caso (ride): dopo varie esperienze in cui sentivo di essere nel posto sbagliato, che non faceva per me. Ed è un’azienda che da Napoli a Rotterdam, da Praga a Herliya (vicino Tel Aviv) e infine Roma, ho imparato a conoscere poco a poco e ad apprezzare perché ha un alto concetto di integrità e del lavoro di squadra. Da noi se tu vuoi dare, non ci sono limiti, e puoi ricevere altrettanto, senza che però nulla ti venga regalato. È per questo che, dopo 23 anni, malgrado la mia allergia a rimanere fermo, sono ancora qui. Il valore aggiunto di lavorare in una multinazionale è che, se ti vuoi mettere in discussione, te ne dà le opportunità. Solo che bisogna sapere che ogni volta si ricomincia da zero e che devi portare a casa il risultato. Sono convinto che una delle chiavi del successo di Unilever, in Italia come all’estero, sia nel riuscire a interpretare ogni realtà locale mettendo a frutto le esperienze internazionali. Così è stato anche per me: cambiare ogni tre anni destinazione è stato come continuare a sottoporsi a delle sfide continue, che possono essere superate solo se si ha l’umiltà di abbandonare i propri modelli preconfezionati e di mettersi in ascolto della nuova realtà che ti sta di fronte.

E lei cos’ha sentito, mettendosi in ascolto dal suo ritorno in Italia?Che nulla va dato per scontato, che la presenza sul territorio non è conquistata per sempre, ma va meritata. Ogni anno vado a Londra per ribadire la necessità e la validità strategica di continuare a investire in Italia, e negli ultimi quattro anni siamo arrivati a una quota di ben 150 milioni di euro. Di questo devono essere consapevoli le persone che lavorano per Unilever, così come chi opera in generale nel nostro Paese, ovvero che nel mondo attuale bisogna essere disposti a guadagnarsi ogni giorno quello che si ha.

Credits Images:

Angelo Trocchia, presidente e a.d. di Unilever Italia