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Piccole imprese italiane non crescono. E non è un problema di soldi

Micro, mini, nane. Gli aggettivi (per lo più negativi) per le pmi del nostro Paese si sprecano. Le quali continuano a non uscire dall’impasse di una dimensione anti-competitiva in un’economia ormai globalizzata. Anche perché, a sorpresa, scopriamo che per esse il problema non sta tanto nella reperibilità delle fonti di finanziamento quanto

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E pensare che eri piccola, ma piccola, tanto pic­cola, così!». Forse Fred Buscaglione questa can­zone l’ha scritta pensando all’impresa italia­na tipo, che è davvero piccola così, tanto che se si consultano le ultime rilevazioni Istat si re­sta sorpresi: delle 4.390.911 aziende che risul­tavano attive nel 2016, ben 4.180.780 erano micro, cioè aveva­no meno di dieci dipendenti e un fatturato inferiore ai due milioni di euro l’anno. Quelle grandi, cioè con più di 250 di­pendenti e un fatturato superiore ai 50 milioni, erano 3.787. Piccolo è bello, quindi? La risposta a questa domanda varia a seconda della congiuntura. In questo momento particolare, le aziende formato puffo non suscitano molta simpatia. E infatti la canzone oggi proseguirebbe così: «T’ho viziata, coccolata ma tu non ti sei quotata». E certo, come fanno a trovare spazio in Borsa delle aziende che entrano in una borsetta? Queste, per raccogliere i capitali necessari alla crescita, non possono far altro che rivolgersi alle banche, sviluppando una dipendenza che genera un altro male italiano: il bancocentrismo (Dante ci perdoni).

Avere un solo canale finanziario di crescita condanna l’impresa italiana al nanismo, soprattutto in un periodo in cui le banche prestano poco volentieri. Questa interpretazione che convince molti, fa storcere il naso a diversi esperti del setto­re. Per esempio, a Fabio Troiani, Ceo di BIP – Business Integration Partners, multinazionale italiana della consulenza azien­dale, che spiega quali sono i punti cardine di una strategia di crescita: «Se parliamo di risorse, è chiaro che i canali tradizio­nali soffrono di un problema regolatorio e di miopie interne che fanno sì che, almeno presso la classica banca medio-gran­de, questo tipo di aziende sia abbastanza negletto. Però biso­gna aggiungere che si stanno gradualmente affermando diver­se istituzioni finanziarie parallele, dai fondi di debito a quelli di private equity, dal crowdfunding al peer to peer lending, le quali, con rendimenti più che discreti, mettono a disposizione di organizzazioni molto snelle quella liquidità che ser­ve a queste ultime per passare alla fase successiva di crescita. Questo dimostra che quello del finanziamento è un falso pro­blema. Di fatto, la banca di oggi è stata disintermediata».

Una delle prime cose che allora gli imprenditori dovrebbero fare, secondo il manager, è un corso di Fintech o di nuova fi­nanza, per avere chiaro quale sia il ventaglio di opportunità al­ternative al canale bancario. Ma poi i nodi vengono al pettine perché, una volta che l’impresa ha i capitali, deve usarli, cioè deve avere dei piani di sviluppo e qui la parola chiave è “digi­talizzazione”. «La trasformazione digitale», spiega Troiani, «di solito produce un duplice impatto. In primo luogo, garanti­sce scalabilità, cioè permette di scalare l’attività molto più fa­cilmente, ma soprattutto consente all’impresa di passare da un business di prodotto a uno di servizio, che è un qualcosa che si mantiene nel tempo e garantisce flussi di cassa più stabili». Questa è la chiave di volta. «Per raggiungere nuovi mercati o semplificare e snellire il processo produttivo, le aziende de­vono aprirsi a canali digitali o potenziare la tecnologia dispo­nibile per aumentare la propria forza di vendita. Questo è or­mai un trend abbastanza consolidato. Chi lo ha saputo fare, è riuscito a esportare i propri prodotti dalla piccola provincia ita­liana a mercati mondiali come quello cinese e americano, sen­za dover essere fisicamente presente in loco», riassume l’a.d..

Sembra facile ma occorre un buon capitale, finanziario ma so­prattutto umano, su questo il consulente non ha dubbi: «È ov­vio che i canali digitali devono essere fatti con tutti i crismi, e quindi c’è bisogno di un investimento adeguato. Per essere chiari, per mettere in piedi un e-commerce che funzioni non basta dotarsi solo di un’interfaccia, ma è necessario costruire una catena di tecnologie che supportino non solo la vendita ma anche la logistica, l’after sale e così via». Va detto che non si tratta nemmeno di una spesa troppo ingente: «Oggi ci sono cose come il software as a service oppure il cloud on demand. Questo fa sì che quelli che una volta erano investimenti in­genti, Capex in gergo, oggi siano delle spese operative, Opex, meno onerose e in qualche modo legate al tipo di attività. È tutto commisurato al risultato, quindi anche il rischio di im­presa diventa più basso», assicura il consulente.

Insomma, il capitale disponibile c’è, la tecnologia non ha costi proibitivi, allora cosa manca? Spesso audacia, mentalità e so­prattutto una forte motivazione, che è il primo ingrediente per fare della buona R&D. Il caso Fca, costretta a cercare l’abbrac­cio con Renault (leggi Nissan) per recuperare un ritardo tecno­logico grave, conferma che alle pmi mancano i capitali ma alle grandi spesso manca una vision, che non sia la banale furbi­zia di chi vende i gioielli di casa, come Magneti Marelli, per di­stribuire lauti dividendi agli azionisti. Per crescere non bastano quindi i soldi, ci vuole una visione e servono delle competen­ze: «È necessaria la capacità di sviluppare talenti che sappiano utilizzare queste tecnologie e avere quindi a disposizione le competenze giuste, interne all’azienda o attraverso il suppor­to di società di consulenza». Ma anche questo non è scontato.

Chi riesce a costruirsi un canale digitale efficiente, può allar­gare il suo bacino di utenza, anche una semplice pizzeria che decida di lavorare con Deliveroo o Foodora. «Per questo tut­ti i grandi fondi di private equity stanno investendo in azien­de italiane di piccole dimensioni che operano in quei campi in cui il made in Italy è un’eccellenza. Rilevano imprese ad altissi­ma potenzialità da imprenditori pronti a vendere e, con un in­vestimento limitato, possono fare un revamping e trasformarle in ottime opportunità», conclude il manager. È vero che que­sti fondi hanno una visione del business diversa da quella che può avere un imprenditore, il quale ragiona su scale tempora­li diverse e tende a essere un po’ più sedentario di investitori che, spesso, si comportano come locuste. Però si resta col dub­bio che, con tante lodevoli eccezioni, le imprese italiane siano piccole perché non sono abbastanza grandi le lenti di chi guar­da al futuro.

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