L’Italia vive un disallineamento tra la formazione professionale e i bisogni occupazionali dei cittadini. Questo gap è costato al Paese 43,9 miliardi di euro, che corrisponde al 3,4% del Pil dei settori analizzati nel 2023. Il dato, calcolato dai numeri rilevati dal sistema Excelsior di Unioncamere, comprende i costi della ricerca di personale di difficile reperimento e le tempistiche di inserimento nel mondo del lavoro troppo lunghe. Queste infatti vanno da due mesi a un anno.
Oltretutto, solo il 36% degli adulti italiani tra i 25 e i 64 anni ha seguito un’attività di formazione o aggiornamento nell’ultimo anno. Una percentuale troppo bassa se consideriamo che la media europea ne conta uno su due. A renderlo noto è il nuovo rapporto “Formazione e Lavoro 2025” di Osservatorio Proxima curato da Enzima12.
Perché l’Italia pecca nella formazione della forza lavoro
L’Italia deve migliorare la performance che vede la formazione professionale al centro del percorso dei lavoratori. Tuttavia, nel breve periodo, il dato migliora. La percentuale di adulti che ha partecipato ad eventi formativi nel mese precedente all’indagine Eurostat 2023 è passata dal 9,6% all’11,6%, che rappresenta il massimo degli ultimi 15 anni. Nonostante questo, però, il problema resta strutturale. Si devono fare i conti, infatti, con una scarsa cultura della formazione permanente, con difficoltà a conciliare i tempi e con ostacoli di natura economica.
“Il mismatch di competenze si manifesta su due fronti: le imprese faticano a trovare i profili richiesti e i lavoratori non hanno accesso a percorsi efficaci per sviluppare le skills necessarie – ha specificato Fabrizio Gallante, Managing Partner di Enzima12 – Questo disallineamento non è solo tecnico ma genera inefficienze strutturali, rallenta l’innovazione ed è un costo industriale elevato per il nostro Paese”.
I numeri parlano chiaro
La conferma del gap è alla luce del sole se si osservano i dati del 2022. Le aziende che hanno investito sulla formazione sono state 726.960, e già nel 2023 il numero complessivo di chi ha organizzato o previsto corsi è diminuito a 708.940. Il vero problema è dimensionale: soltanto il 21,1% delle microimprese forma i propri lavoratori, contro il 54,2% delle grandi aziende.
“Il sistema formativo aziendale in Italia è fortemente polarizzato: sono soprattutto le grandi imprese a formare, più della metà investe nei propri dipendenti mentre le micro non ce la fanno a stare al passo, e appena un’azienda su cinque investe in formazione – ha aggiunto Gallante – Questa asimmetria compromette la competitività del tessuto produttivo e rallenta l’accesso e diffusione di competenze necessarie per affrontare le transizioni in corso”.
Intanto, anche la natura dei contenuti formativi è cambiata. Il 41,6% delle imprese forma i propri dipendenti su digitalizzazione, soffermandosi soprattutto sulla cyber-sicurezza, sulle tecnologie 4.0 e sul digital marketing, mentre il 30,3% punta sulla transizione ecologica, investendo in gestione ambientale, rifiuti, riciclo, efficienza energetica.
“Con l’intelligenza artificiale possiamo salvare e trasmettere il patrimonio di competenze dei lavoratori esperti, costruendo un ponte tra generazioni e valorizzando il sapere delle imprese. Davanti al silver tsunami, al mismatch e all’inattività femminile, l’Italia rischia di perdere gran parte del suo potenziale produttivo – ha detto Vincenzo Vietri, Co-fondatore di Enzima12 – Occorre riconoscere la formazione continua come diritto, spingere le pmi a usare i fondi disponibili, rilanciare ITS, giovani e donne, e trasformare l’esperienza dei senior in risorse formative attraverso l’AI”.
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