Tre outsider riscrivono le regole della comunicazione aziendale

Un divulgatore digitale, un giornalista true crime e un comico mettono in crisi i codici tradizionali della comunicazione d’impresa, riscrivendola all’insegna di empatia, ironia e tensione narrativa

outsider-comunicazione-aziendaleDa sinistra, Rudy Bandiera, Giovanni Vernia e Stefano Nazzi

La comunicazione aziendale è fatta soprattutto di report, email e riunioni interminabili. Ma cosa succede quando a riscrivere le regole del gioco sono un esperto di true crime, un divulgatore che ha fatto del “perché” la sua missione e un ex manager diventato comico di successo?

Stefano Nazzi, voce e penna dietro al podcast cult Indagini, insegna che la suspense non riguarda solo i romanzi gialli: anche in azienda, saper creare attesa e curiosità è la chiave per conquistare gli interlocutori. Brevità, chiarezza, ganci narrativi e un linguaggio vicino a chi ascolta: questi i suoi ingredienti per una comunicazione efficace.

Rudy Bandiera, formatore e autore, invita a partire dal cuore: ogni messaggio efficace nasce da un “perché” autentico, da una reason why che dà senso e coerenza a ogni parola. La sua ricetta? Parlare una lingua comune, costruire policy condivise, formare ambassador e non dimenticare mai chi c’è dall’altra parte. E se i social sono la nuova arena, il manager deve imparare a dominare i mille rivoli dell’ultra-comunicazione, senza perdere il proprio tono di voce.

Infine, Giovanni Vernia, ex manager e oggi artista poliedrico, svela il superpotere dell’ironia. Sdrammatizzare, rompere la monotonia delle riunioni e creare empatia: così si conquista autorevolezza e si migliora il clima aziendale. Perché, come insegna Vernia, chi sa ridere di sé è già a metà dell’opera. Tre voci, tre percorsi, una certezza: la comunicazione aziendale non è mai stata così viva, sorprendente e… contemporanea!

Serve una lingua comune

Per Rudy Bandiera, al centro di ogni comunicazione deve esserci il messaggio, lo scopo comunicativo

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Formatore, speaker, creator, divulgatore, autore di cinque libri. Rudy Bandiera aiuta le aziende a comunicare meglio, giocando su molte variabili: il perché, il target, il tono di voce, la tecnologia.

Di quali comunicazioni aziendali parliamo e come potenziarle al massimo?
Ci sono da distinguere, secondo me, due forme di comunicazioni diverse: interna ed esterna. Quella interna va dai manager al resto dell’azienda e viceversa. Quella esterna serve per due ragioni sostanziali. La prima: creare un cuscinetto comunicativamente funzionale attorno all’azienda da parte di persone che possiamo definire champion, ambassador o comunque coloro che ne veicolano il messaggio. La seconda: attrarre talenti, quindi il famoso employer branding. È fondamentale trovare dei linguaggi che siano comuni. Serve una lingua che possa essere compresa da tutti all’interno dell’azienda, una specie di esperanto. E che sia in un formato uniforme.

Che cosa si intende per “formato”?
Pensiamo, per esempio, alle email aziendali. Se c’è chi scrive tutto in maiuscolo, chi usa il carattere Comic Sans e chi scrive in verde si creano delle dissonanze. Perciò è consigliabile stabilire delle policy interne di comunicazione e dei termini comuni in grado di fluidificare il più possibile lo scambio di informazioni e messaggi. Strumenti utili sono dei dizionari aziendali e delle faq con risposte già pronte sulle modalità di comunicazione interna.

Consigli di comunicazione esterna?
I manager devono comunicare l’azienda nelle sue dinamiche e nei suoi successi, ma anche nel costrutto valoriale. Questo aiuta a rendere l’azienda appetibile. Faccio un esempio: se io sono un’azienda che vende automobili, non vendo automobili, vendo mobilità, quindi, devo risolvere i problemi di mobilità delle persone. Se io vendo qualunque cosa, che sia un prodotto o un servizio, devo individuare un target che abbia delle problematiche che possano essere risolte da ciò che offro.

Come comunicare sui social?
Secondo me, ci sono solo due piattaforme oggi che ti permettono di crescere in maniera organica, anche se non sei un fenomeno. La prima è LinkedIn, che consente ai professionisti di emergere grazie alle proprie competenze. La seconda è TikTok, dove i contenuti contano più dei follower. È una piattaforma sempre meno giovane, il che non è detto che sia un male. Ma comunque qui i giovani ci sono e rappresentano un ottimo target per le campagne di personal branding, a patto di parlare il loro linguaggio.

Come aiutare le aziende a comunicare in modo più efficace?
Ci sono aziende illuminate, che hanno dei programmi di formazione dedicati agli ambassador. Io seguo, per esempio, Banca Ifis, che ogni anno forma dei gruppi di dipendenti, che hanno l’onere e l’onore di comunicare la banca sui social. Servono skill di comunicazione digitale ad hoc, che poi i dipendenti si ritrovano anche per la loro comunicazione individuale, sia aziendale che personale. Le aziende hanno capito che servono delle facce che comunicano esternamente, ma anche che queste facce devono essere preparate a farlo. Alla base c’è la formazione culturale, che spesso fa la differenza. A corredo, le competenze più tecniche.

Quali sono queste competenze?
Per i social, bisogna imparare a strutturare i contenuti in modo da intercettare il funzionamento dell’algoritmo. E poi serve imparare a realizzare un video, per esempio. Inoltre, è fondamentale aggiornarsi, perché la tecnologia evolve di continuo. Un esempio su tutti è quello dell’intelligenza artificiale: quello che ho raccontato l’anno scorso dell’AI adesso è totalmente superato.

Cos’è l’ultra-comunicazione su cui verte il suo corso alla Scuola Holden?
Fino a 20 anni fa la comunicazione poteva avvenire solo in maniera sincrona, di persona o al telefono. Adesso i modelli di comunicazione si sono moltiplicati, grazie a email, call, webinar, messaggi WhatsApp, podcast, eventi misti… Oggi esiste un’infinità di rivoli comunicativi, quindi non è più comunicazione, ma è ultra-comunicazione. E riuscire a dominare tutti questi rivoli è la competenza che può davvero consentire un salto di qualità dal punto di vista della comunicazione.

Ma che cosa dobbiamo sempre tenere presente quando comunichiamo?
Il cuore della comunicazione. Al centro di tutto ci deve essere il messaggio, lo scopo comunicativo, quello che Simon Sinek chiama il perché. Devi capire in che cosa sei bravo, che cosa puoi dare in più degli altri. Una volta che hai individuato tutte queste cose qui, quello è il tuo perché, la tua reason why, su cui devi costruire la tua comunicazione. E questo vale sia a livello aziendale che personale.

Quanto conta sintonizzarsi sul target?
È fondamentale. Bisogna comunicare tenendo sempre presente chi ti ascolta, ti legge, compra i tuoi prodotti. Io sono un sostenitore della semplicità, ma in alcuni contesti il target ha necessità di un linguaggio più tecnico e articolato. Perciò non ci sono un linguaggio o un approccio sempre valido, ma dipende dall’obiettivo, dal target, dal contesto. Però è fondamentale avere sempre un proprio tono di voce riconoscibile e personale.

Altri alleati nella comunicazione?
L’esperienza e la sensibilità che ti danno la capacità di leggere le situazioni, captare i temi di maggior interesse, cavalcare i trend.

Anche la suspence aiuta

Per Stefano Nazzi, creare tensione e inserire colpi di scena è utile per vivacizzare la comunicazione delle imprese e non perdere l’attenzione di dipendenti e clienti

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Stefano Nazzi, giornalista di carta stampata, arriva al grande successo con il podcast Indagini, prodotto da Il Post. Negli anni, il format si allarga ad Altre Indagini, grandi vicende della storia italiana. Allo spettacolo dal vivo. Per non parlare della trasmissione televisiva Il caso e dei libri: Canti di guerra e Il volto del male. Ci racconta come le tecniche narrative del true crime aiutino anche nella comunicazione aziendale.

Nei suoi podcast utilizza spesso la suspense per catturare e mantenere viva l’attenzione. Ma esistono delle tecniche che possono essere usate anche in un contesto aziendale?
Sì: usare frasi brevi, scegliere parole semplici ed essere sempre molto chiari nei propri discorsi. Una tecnica potente è quella di creare dei ganci, cioè dare sempre l’impressione di avere qualcosa da aggiungere di utile e interessante. In questo modo si trasmette alle persone il concetto che conviene continuare ad ascoltarci. Il momento importante è quello iniziale, quando dobbiamo mettere subito in chiaro di che argomenti parleremo, in che modo e con quali toni. E anche chiarire di che cosa non si parlerà, in modo da far capire qual è il tema al centro del nostro discorso o della nostra comunicazione e quanto tempo ci prenderemo.

Quanto è importante la sintesi?
È fondamentale. Bisogna dire solo le cose essenziali. A volte ascoltiamo narrazioni troppo lunghe, infarcite di parole inutili. Bisogna usare le parole semplici che definiscono con esattezza quel concetto. Non solo, meglio privilegiare le parole che le persone a cui ci rivolgiamo usano nei loro discorsi. Per esempio, io uso “arrivare” e non “giungere”, perché noi diciamo “sono arrivato” e non “sono giunto”. Per lo stesso motivo, uso “dire”, al posto di “sostenere” o “affermare”, che sono termini invece più adatti alle comunicazioni scritte. Bisogna comunicare come fanno le persone a cui ci rivolgiamo, evitando costruzioni artefatte che hanno la conseguenza di far calare l’attenzione.

Lei, per incuriosire, spesso anticipa dei temi, fa degli accenni. Come si può adattare questa strategia alla comunicazione aziendale?
A volte la si può usare in modo esplicito, dicendo «di questo parleremo più avanti». A volte, basta farla intuire. Si butta lì un elemento, che si fa capire tornerà nella narrazione, creando così un’attesa. Naturalmente, è una tecnica di cui non si deve abusare, perché si rischia di diventare fastidiosi. Bisogna far sempre capire, pensare, lasciando intuire che ci sia sempre qualcosa di più rispetto a quello che è stato appena detto.

Dalla carta stampata al podcast, quanto conta la voce e quanto ci ha lavorato?
Rispetto a un articolo o a un libro, un podcast offre elementi espressivi in più: la voce, il tono, le pause, la musica. Non sono un professionista della dizione né un attore. A volte mi fanno notare i miei difetti, come quello di mangiarmi un po’ le sillabe finali delle parole o fare errori di intonazione. Dopo tre anni di podcast e gli spettacoli in teatro, questi difetti cerco di eliminarli. Ma anche mantenere la propria cifra è importante.

Si esibisce anche dal vivo. Quali analogie fra un suo spettacolo e, per esempio, un discorso ai dipendenti o a una riunione importante? Quali consigli per eccellere?
L’essenziale negli incontri di persona è creare subito una condivisione. Avere una comunità che si raccoglie intorno a ciò che stai comunicando. Questo vale anche in azienda. Per stabilire questo legame, bisogna partire subito forti, con contenuti e temi a effetto. E poi è importante l’obiettivo: per come la penso io, non devi essere tu al centro della comunicazione. Deve essere il concetto che esprimi al centro: tu sei lo strumento attraverso cui trasmetterne i contenuti.

La suspense può essere creata anche nelle storie aziendali?
Certo. Creare tensione, inserire colpi di scena, suscitare aspettative: tutti elementi interessanti da utilizzare. Alla base, a fare la differenza, è la capacità di incuriosire le persone che abbiamo davanti. In questo modo sarà più facile conquistarle e portarle dalla nostra parte, per ogni tipo di comunicazione di cui saremo attori.

L’ironia come superpotere

Meglio ancora se si tratta di autoironia. Per Giovanni Vernia, l’ironia non serve solo solo per comunicare con i propri collaboratori sul lavoro, ma anche quando si parla di campagne pubblicitarie

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Ironia e autoironia per diventare più autorevoli, migliorare il clima e raggiungere i propri obiettivi. Tutti i consigli e l’esperienza di Giovanni Vernia. Comico, imitatore, attore, cantante, dj producer, regista, conduttore radiofonico. Lo ricordiamo a Zelig e nel film Ti stimo fratello. Ma prima si è laureato in Ingegneria elettronica e ha lavorato per dieci anni come manager in un’azienda americana che si occupava di web marketing. Oggi è anche formatore.

In azienda, c’era qualcosa che le andava stretto?
Esatto. Iniziamo dalle riunioni: già il termine è noioso. Io ero sempre quello che cercava di vivacizzarle. Il primo errore è che, in genere, parla quasi sempre uno, il capo, anche perché gli altri temono di farlo. A bloccarli la paura di dire qualcosa di sbagliato, fuori luogo. Invece, il primo consiglio è proprio quello di dire la propria, esporsi. È importante esprimere il proprio punto di vista, anche a costo di essere giudicati per questo.

E poi c’era un fil rouge, nella sua comunicazione…
Sì, il senso dell’umorismo. Nella comunicazione sul lavoro è importante sdrammatizzare, stemperare la tensione con qualche battuta, cercare di rendere ogni incontro e ogni scambio piacevole. Questo permette di entrare in empatia con le persone, far arrivare più facilmente i messaggi. Così evitiamo due degli errori più diffusi: fare dei monologhi e dimenticarci di chi abbiamo davanti, delle persone a cui sono indirizzati i nostri messaggi.

Ci fa un esempio di come l’autoironia aiuta a comunicare meglio sul lavoro?
C’era una ragazza che di lavoro doveva fissare, al telefono, appuntamenti con i clienti. Il problema è che aveva una voce terribile, quasi ridicola. I suoi interlocutori non la prendevano sul serio, pensavano quasi che scherzasse. Dopo aver partecipato al mio Work-Shock, workshop che tengo in azienda per allenare il sense of humour, ha cambiato tecnica. Chiamava, si presentava e accennava subito alla sua voce. «Lo so, è terribile, ma la mia proposta è seria». In questo modo, si metteva subito al riparo dalle critiche e riportava l’attenzione all’oggetto della chiamata. Conseguenza: trasformare un handicap in un punto di forza.

Come distinguere l’umorismo sano dalla comicità, che invece può essere fuori luogo?
La prima regola è non ironizzare sugli altri, fare gossip, prendere in giro i colleghi. Questo, sul luogo di lavoro, crea malumori, gruppetti e barriere. Non bisogna divertirsi alle spalle di qualcun altro, ma tutti insieme. La chiave per riuscirci è l’autoironia. Se mi prendo in giro io per primo, metto gli altri a proprio agio, perché li faccio sentire superiori. L’autoironia è un’espressione di umiltà. Devi essere disposto a prenderti in giro, ascoltare l’altro. Non ascoltare solo te stesso. Il comico è dipendente dalla risata. L’umorista è dipendente dal sorriso.

Ma perché è così importante il senso dell’umorismo?
Perché favorisce la comunicazione e la collaborazione, riduce la conflittualità e migliora il clima aziendale. Un manager o un leader che usa l’umorismo ha un carisma molto superiore a chi non è in grado di usarlo, perché alla base occorre avere sicurezza. Chi è abbastanza sicuro da essere autoironico è in grado di trasmettere più autorevolezza che autorità.

Può farci un esempio di come l’ironia può rendere una comunicazione aziendale più efficace?
Qualche anno fa, agli albori dei social network, il reparto IT di una grande azienda monitorava il tempo passato dai dipendenti su Facebook durante le ore di lavoro. Finché il direttore del personale scrisse a tutti questo messaggio: «Abbiamo visto che molte persone passano le loro ore lavorative su Facebook. Sappiate che non è una pratica ben vista. E vi avvisiamo che se continuate, il direttore del personale si vedrà costretto a togliervi l’amicizia». Una comunicazione permeata di ironia viene considerata cento volte di più di una più fredda e normativa.

Quali i leader che più usano meglio l’ironia?
Tanti, da Barack Obama al recentemente scomparso Papa Francesco. Essere autoironici dimostra che ci mettiamo in discussione, che non siamo infallibili, che possiamo e vogliamo migliorare.

Come si impara l’umorismo?
Io faccio fare degli esercizi, molti sono di improvvisazione. Essere spontanei è spesso un tabù. Ma chi scopre questa dimensione, fa un salto di qualità. In ogni momento aziendale, l’ironia è una marcia in più. Immaginiamo di chiedere un aumento: chi la mette giù dura ha meno chance di chi sdrammatizza con un ammiccamento e un “tengo famiglia” detto con il tono giusto.

Ci sono brand che usano l’ironia per promuoversi?
La 500 X è stata promossa negli Usa giocando sul fatto che in America Fiat è letto come acronimo di: “Fix it again, Tony”, come a dire che queste macchine si guastano spesso. Microsoft, quando ha lanciato Explorer, ha scherzato sui bug. Peccato che in Italia le aziende facciano più fatica a ironizzare sui propri difetti.


Questo articolo è tratto dallo speciale Comunicazione d’impresa di Business People di settembre 2025, scarica il numero o abbonati qui

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