Connettiti con noi

Sostenibilità

Bain & Company: così si crea appartenenza

È un dato di fatto: costruire team inclusivi non è solo giusto, ma conveniente. Qual è l’approccio migliore? Ammesso che ne esista solo uno… E come ottenere un riscontro immediato? Le risposte nell’ultima indagine globale della celebre società di consulenza

architecture-alternativo

Se la persona che sta leggendo queste pagine si sente pienamente accolta e considerata all’interno della propria organizzazione si ritenga fortunata. Sì, perché la stragrande maggioranza dei dipendenti – più del 70% – non prova lo stesso e questo a prescindere da etnia, sesso od orientamento sessuale. Si tratta di un serio campanello d’allarme per le aziende, perché creare un ambiente inclusivo non è solo eticamente giusto, ma conveniente: la neuroscienza ha appurato che nel cervello di chi si sente escluso si attivano allarmi biologici simili a quelli associati al dolore fisico, che penalizzano benessere e prestazioni. Non si tratta di convincere le aziende della bontà di questi studi, il problema è che la maggior parte di esse fatica a promuovere tra la propria forza lavoro un sentimento di inclusione diffuso. È questa la prima, cruda verità che emerge dal rapporto The Fabric of Belonging: How to Weave an Inclusive Culture, il più recente studio della società di consulenza Bain & Company in tema di Diversity & Inclusion. L’indagine, condotta in Italia e altri sei Paesi nel mondo su un campione di 10 mila persone, paragona la strategia di inclusione di un’azienda alla tessitura. Perché, come sottolineano gli autori, il tessuto non è altro che l’intreccio di fili, che mantengono la loro integrità individuale anche se fanno parte di un tutto. Un tessuto che rende al meglio quando la sua trama è solida.

Una stoffa di pregio, ma intricata

Comprendere cosa rappresenti l’inclusione per un individuo è qualcosa di molto semplice. Non contano età, colore della pelle o estrazione sociale: la maggior parte dei professionisti definisce inclusiva l’azienda in grado di ascoltare, apprezzare e supportare le persone, che possono sentirsi libere di essere se stesse sul posto di lavoro. Una sensazione che ripaga. Le imprese più evolute da questo punto di vista attraggono più facilmente i talenti (il 65% dei candidati considera un ambiente inclusivo “molto importante”) e ottengono un bonus sul fronte della reputazione: chi si sente parte di un’azienda è molto più propenso a promuoverla rispetto a chi si considera escluso (+71% contro -83%, sula base del Net Promoter Score di Bain). Il vantaggio è anche sul fronte dell’innovazione: i dipendenti delle organizzazioni più inclusive si sentano liberi di innovare e a proprio agio nello sfidare lo status quo, introducendo idee potenzialmente disruptive. La complessità è un’altra. Non esiste un percorso universale che porta all’inclusione e questo dipende da diversi fattori. Innanzitutto, non c’è variabile (come etnia, genere od orientamento sessuale) che permetta all’azienda di “predire” le persone a rischio esclusione: può capitare a tutti e per svariati motivi. Inoltre, evidenzia Bain, i dirigenti senior oggi responsabili del cambiamento sono cresciuti con una cultura e schemi diversi e potrebbero avere difficoltà a implementare la giusta strategia; senza contare che gli stessi dipendenti potrebbero avere opinioni divergenti sulla politica da attuare. Molti di loro, specie quelli appartenenti a gruppi di maggioranza, potrebbero considerare alcune strategie di inclusione in contrasto con le idee di equità, uguaglianza o meritocrazia. Vanno poi considerate le diverse trame del tessuto, ovvero i fattori abilitanti dell’inclusione, che variano tra gruppi aziendali per identità e ruolo. Ultimo punto fondamentale: gli stessi dipendenti non hanno realmente chiaro quali politiche favoriscano il loro processo di inclusione.

Questa intervista è tratta da Fare la differenza , inserto di Business People dedicato alla Diversity & Inclusion . Puoi leggere l’inserto sul numero di aprile 2022 o in versione digitale (iOs e Android)

Tagliare lungo la complessità

Offrire a tutti opportunità di sviluppo e crescita professionale rappresenta comunque un buon punto di partenza ma, si sottolinea nel report, c’è anche un altro metodo per rendere meno complesso il processo di inclusione: considerare le persone attraverso una lente intersezionale, che prenda in esame provenienza geografica, demografica e anzianità. Secondo Bain & Company, questo approccio può mostrare a un’organizzazione dove e con quali gruppi intraprendere azioni specifiche, che possono essere sia sistemiche che comportamentali. Dal punto di vista geografico, ad esempio, in Paesi europei come l’Italia, dove le normative favoriscono già sistemi più inclusivi, il fattore comportamentale può risultare determinante. Dal punto di vista demografico, invece, va considerato che molti sistemi organizzativi sono progettati sulla base di una popolazione maggioritaria e presentano, quindi, pregiudizi inconsci, che possono essere modificati solo attraverso un cambiamento sistemico. Guardando, invece, all’anzianità, le aziende devono considerare che per dipendenti junior il “sistema” è rappresentato dai loro responsabili e l’atteggiamento di questi ultimi è fondamentale per un maggior senso di inclusione dei nuovi.

Tessere il tessuto, ovvero passare all’azione

I dati raccolti evidenziano che, seppur impegnativa, la strada che porta all’inclusione è percorribile da tutti. Certo, le imprese non possono fermarsi solo alle intenzioni. Il cambiamento reale avviene con l’azione. Qualcosa che le imprese italiane dovrebbero comprendere, soprattutto sul fronte dell’uguaglianza di genere. Secondo i dati presentati in occasione dell’evento italiano WAB Forum | The Future Women (and Men?) Want dello scorso giugno, il nostro Paese è molto indietro su questo fronte: tutti parlano di equità, ma poche aziende stanno avendo un reale impatto. Un danno culturale ed economico compreso tra i 50 e i 150 miliardi di euro, ha sottolineato Claudia D’Arpizio che, oltre a essere responsabile globale Moda & Lusso e membro del board di Bain, fa parte del Diversity, Equity & Inclusion Council della società di consulenza strategica. Il mercato del lavoro è fortemente sbilanciato a danno delle donne: solo tre su dieci ricoprono posizioni di leadership e vengono pagate in media il 21% in meno rispetto agli uomini, un gap tra i più alti d’Europa, che cresce con il progredire della carriera. In Bain dal 1994, dieci anni più tardi D’Arpizio era l’unica donna – tra 30 uomini – partner della società in Italia. «Anche allora lavorare in un contesto prevalentemente maschile non rappresentava un limite, perché questa è un’azienda meritocratica, che premia il talento», afferma. «Certo, essere l’unica donna in un team è qualcosa che non ti fa sentire pienamente a tuo agio: all’inizio ti senti un po’ diversa, cerchi di omologarti e metti in conto “carriera” quel malessere che le inconsapevoli micro aggressioni quotidiane ti generano (non esisteva neanche la parola per descriverle 20 anni fa!)». Ora, però, i tempi sono maturi per un cambiamento anche in Italia. «Gli avvenimenti degli ultimi anni stanno portando le aziende ad avere un ruolo molto più attivo e a prendere una posizione più forte su questi temi. Emily Dickinson diceva: “Non conosceremo la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci”. Sul ruolo della donna, sulla parità di genere, bisogna alzarsi in piedi e agire». Reclutare un gruppo eterogeneo è solo l’inizio del processo. Per rendere l’inclusione una realtà, le aziende sono chiamate a comprendere lo stato attuale della propria organizzazione, stabilendone gli obiettivi e sviluppando un piano di inclusione appropriato, magari favorendo la nascita di gruppi di affinità tra i dipendenti, per aiutare le persone sotto-rappresentate a trovarsi e supportarsi vicendevolmente. «Non crediamo ci sia un approccio più giusto di un altro», aggiunge D’Arpizio. «Ogni realtà, anche di medie dimensioni, deve capire quale sia il percorso migliore per raggiungere l’obiettivo, che alla fine rappresenta una piccola (grande!) rivoluzione culturale». In questo contesto può essere utile l’istituzione di un team di leadership con ruoli e responsabilità chiari. «Il Chief Diversity Officer è un abilitatore importante per un cambiamento culturale profondo ma non sufficiente», conclude D’Arpizio, «il cambiamento deve essere in primis voluto e sponsorizzato dagli azionisti e dalla leadership».

GUIDARE IL CAMBIAMENTO

Promuovere la diversità è fondamentale per una società di consulenza come Bain & Company, che ha l’obiettivo di supportare le aziende nel raggiungere il massimo potenziale e ridefinire gli standard del settore. Questo perché è dalla diversità che nascono il confronto e le migliori idee per rendere il cambiamento reale. Non è un caso, quindi, che la società lavori per fare in modo che tutte le persone al suo interno abbiano potenzialità di successo. Un impegno riconosciuto da più enti internazionali e che si traduce in numerose iniziative di supporto, come gli affinity group, che favoriscono nuovi legami mediante progetti di coaching, mentoring e sviluppo professionale. Tra questi si segnala Women at Bain, che in Italia ha portato alla creazione del format WAB Forum, un dibattito sulla presenza femminile nelle aziende italiane, raggiungendo nel 2021 oltre 500 persone tra responsabili di aziende e istituzioni.

Credits Images:

© iStock