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Il capitalismo va riscritto. Sì, ma come?

Le idee – come le ragioni – sono diverse. A partire dal rivedere il concetto di neoliberismo in voga in Occidente e passando dal rompere il legame perverso fra economia e politica. Ma non è tutto…

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«Le nostre democrazie hanno bisogno di una ristrutturazione. Probabilmente, le preoccupazioni principali riguardano il ruolo del denaro nella politica e il funzionamento dei media. I soldi comprano i politici. Questa è una plutocrazia, non più una democrazia… Non dobbiamo più accettare lo status quo. Non funziona e deve cambiare». Questo durissimo atto d’accusa del capitalismo sarebbe stato quasi scontato se pubblicato su una rivista come The Jacobin, ma è apparso sul Financial Times, il che fa riflettere. Se anche il giornale di riferimento della business community mondiale arriva a chiedere una riforma dell’attuale sistema economico, vuol dire che la situazione è molto più che preoccupante: è quasi disperata, come hanno dimostrato le imponenti manifestazioni di piazza in Brasile, Colombia, Cile, Ecuador, Iran, Hong Kong, Francia, Libano e Spagna con cui si è chiuso il 2019.

«In varie parti del globo il capitalismo sta funzionando bene, mentre altrove, in particolare nei Paesi occidentali, non sta producendo più tassi di crescita elevati e, soprattutto, sta dimostrando di essere incapace di produrre un benessere che non sia solo economico ma anche sociale e ambientale, distribuito tra tutte le persone. Quindi, è evidente che il capitalismo non sta producendo i risultati socio-economici attesi», ha detto a Business People Enrico Giovannini, ex capo degli statistici dell’Ocse ed ex presidente dell’Istat. «In più ci sta portando a distruggere il pianeta. Il paradigma della crescita del Pil non è più in grado di ridurre le disuguaglianze, aumentate moltissimo quasi ovunque, e di creare lavoro “dignitoso”. In questo modo si realizza una sorta di decoupling, di scollamento, tra crescita della produzione e benessere della società e del pianeta», ha continuato l’economista. Si parla di capitalismo ma forse sarebbe più corretto usare il plurale, perché a essere sotto accusa non è il modello capitalistico in generale ma la sua variante neoliberista, quella che a partire dagli anni 70 si è imposta inesorabilmente nelle università, nei ministeri, nelle banche centrali, predicando lo smantellamento dello Stato, del suo potere di intervento e regolamentazione, attraverso programmi di privatizzazione e deregolamentazione di cui si è avvantaggiato il grande capitale.

Una prima riforma, quindi, dovrebbe riguardare la centralità assegnata al Pil come indicatore assoluto per misurare la performance economica di un Paese. Ma un altro nodo di assoluto rilievo è il segreto di Pulcinella svelato da Martin Wolf nell’articolo del Financial Times citato: il legame perverso tra potere economico e politico. Chi ha molto, vuole di più. Ma chi ha molto, ha soprattutto il potere di condizionare l’agenda politica per arrivare ad avere di più e pagare di meno. Un esempio viene dalla Francia. Qui, l’Institut des Politiques Publiques ha studiato gli effetti delle politiche fiscali varate sotto la presidenza di Emmanuel Macron, ex funzionario di Rothschild. I redditi dei percentili più poveri e di quelli più ricchi, cioè quelli compresi tra 0 e 23 e tra 80 e 99, sono diminuiti. Quelli dei percentili nel mezzo sono aumentati, ma meno dell’1%, mentre i redditi dell’1% più ricco in assoluto, il percentile tra 99 e 100, sono cresciuti del 6%. E Parigi è parte di un trend diffuso in tutto l’Occidente. In Gran Bretagna, come riportato dal Guardian lo scorso 3 dicembre, i sei cittadini più ricchi del regno possiedono insieme la stessa ricchezza dei 13 milioni e 200 mila sudditi più poveri. Il New York Times ha dimostrato che negli Usa i super ricchi pagano percentualmente meno tasse dei quasi indigenti. Non era così negli anni 50, quando l’imposizione fiscale valeva il 70% dei loro redditi. Il livello era già sceso al 48% già negli anni 80, che segnò l’inizio del trionfo delle politiche neoliberiste, ma anno dopo anno, riforma dopo riforma, è arrivato all’attuale 23%, che è meno di quanto pagano le fasce più povere (26%). Il venir meno dei meccanismi redistributivi attuati attraverso la leva fiscale ha portato alla realtà fotografata da un re­cente report della Federal Reserve, caratterizzata da un impoveri­mento di larghi strati della popolazione e dalla quasi scomparsa della classe media.

In particolare, se la passano male i più giova­ni. I cosiddetti millennial, per esempio, quelli nati tra il 1981 e il 1996, attualmente possiedono solo il 3% della ricchezza nazionale. Alla loro età, i baby boomer (1946-1964) ne possedevano il 21%. Così, mentre nel resto del mondo milioni di persone uscivano dal­la povertà, in Europa e negli Stati Uniti ci entravano. Merito di un modello economico che, tra le altre cose, ha reso normale e accet­tabile la disoccupazione, ingentilita con l’aggettivo “strutturale”, che può esser tradotto come “fisiologica”. Le cosiddette riforme strutturali hanno contribuito a precarizzare il lavoro, precondizio­ne per avere un certo bacino di disoccupazione, sempre utile per schiacciare i salari e poter produrre a prezzi sempre più competiti­vi contribuendo a creare le condizioni per quella che gli economi­sti chiamano “stagnazione secolare”, cioè con una crescita media annua dei Paesi industrializzati dell’1,75% per i prossimi 40 anni.

Poi c’è la questione ambientale, direttamente legata a quella eco­nomica. «L’attuale sistema economico-finanziario non è in gra­do di portarci al raggiungimento degli obiettivi climatici in quanto non tiene conto della scarsità delle risorse naturali e dell’impatto del loro sfruttamento sul clima. Non c’è un’idea nel sistema capi­talista di limite delle risorse per la crescita, per quanto il concetto dei Limits to Growth fosse già stato introdotto nel 1972 dal Club di Roma. In quella pubblicazione si diceva che la tecnologia poteva es­sere uno strumento di breve periodo per continuare a crescere ma, nel lungo periodo, problemi legati all’aumento della popolazione, di produzione e accesso al cibo, produzione industriale e inquinamento avrebbero portato al collasso del sistema». A parlare è Irene Monasterolo, economista climatica dell’Università di Economia e Business di Vienna, Visiting Researcher alla Boston University e già consulente della Banca Mondiale, autrice di studi e modelli per valutare l’impatto delle politiche economiche sulla transizione verde e sulla finanza. Per lei, il fallimento del round madrileño del Summit mondiale sul clima dello scorso dicembre non è una sorpresa. Da studiosa della materia, sa che il sistema economico e politico non è pronto a supportare la transizione alla green economy, almeno nell’immediato. La riconversione produttiva in chiave ecologica aprirebbe enormi spazi per una crescita sostenibile, ma bisogna considerare il peso dei player che hanno investito e ricavato miliardi dai combustibili fossili, e anche quello degli investitori. Banche e fondi sono massicciamente esposti verso i cosiddetti brown asset, quelli che più perderebbero valore con l’avvento di una transizione verde. Sono in buona parte di questo tipo i titoli sui quali si sono diretti molti miliardi di euro immessi nel sistema dalla Bce tramite il Quantitative Easing. Altro esempio, BlackRock, il più grande fondo al mondo, che gestisce un patrimonio di 7 mila miliardi di dollari, ha appoggiato solo un 10% delle risoluzioni anti climate change. Il suo potere di sabotare qualsiasi sforzo è potenzialmente enorme.

Ma ciò che preoccupa la docente è un altro problema legato ai modelli economici in uso. «Quelli tradizionali, CGE (Computable General Equilibrium models, ndr) o DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium models, ndr) adottati dalle banche centrali non tengono conto della relazione tra clima, politiche pubbliche e complessità del sistema finanziario». Stefano Battiston, professore di Finanza dell’Università di Zurigo, che con Monasterolo ha firmato diversi studi, ha dimostrato scientificamente che, oltre un certo grado di complessità contrattuale, il mercato non è più in grado di prezzare il rischio. E, infatti, a Wall Street i maghi della finanza negli ultimi anni hanno lavorato alla costruzione di prodotti sempre più complessi e indecifrabili, davanti ai quali le stesse autorità regolatrici non potevano che alzare le mani. La crisi dei subprime non ha insegnato nulla. Nei soli tre mesi compresi tra settembre e novembre dello scorso anno, la sede newyorchese della Fed ha prestato a tassi ultravantaggiosi ben 3 mila miliardi di dollari alle trading house delle principali banche. Perché? Cosa sta succedendo a New York? Quale virus potrebbe infettare di nuovo l’economia mondiale? Una riforma del capitalismo che prescindesse da una riflessione seria e profonda sullo strapotere assunto dalla finanza sull’economia reale e sulla politica sarebbe un fallimento in partenza.

Ma se i regolatori sono impotenti di fronte alla finanza, figurarsi cosa possono fare davanti ai cosiddetti Big Tech. Le cinque principali aziende tecnologiche (Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft) del mondo hanno assunto una dimensione e un potere in mano a imprese private mai visto prima. Questa concentrazione di potere significa concentrazione di ricchezza. Secondo Bloomberg, i 500 uomini più ricchi del pianeta, tra i quali figurano personaggi come Mark Zuckerberg, Bill Gates, Elon Musk e naturalmente Jeff Bezos, hanno visto il proprio patrimonio aumentare del 25% nel solo 2019. In una delle rare interviste concesse, Haisong Tang, responsabile innovazione di Kering e tecnologo tra i più ascoltati, ha detto che Stati Uniti e Cina dovranno necessariamente spezzettare i giganti del web, prima che diventino una minaccia per gli stessi Paesi. Ma ogni riforma dell’economia dovrà mettere al centro l’idea di collettività. L’individualismo esasperato promosso dal neoliberismo ha reso la società più fragile e le democrazie più dirottabili. Per salvare il capitalismo, salvate le comunità, titolava lo scorso febbraio Bloomberg, altra testata che non può essere tacciata di filocomunismo, ma nemmeno di progressismo. E, a proposito di media, un’altra seria riflessione andrà fatta sull’informazione economica, che per decenni ha ignorato, spesso proprio occultato, processi economici e politici che l’opinione pubblica avrebbe dovuto conoscere nella loro completezza. Lungi dall’aver fatto mea culpa e dall’essersi presi un anno sabbatico per studiare un po’, i falsi profeti di ieri oggi sono ancora in cattedra a dispensare pillole di verità.

*Articolo pubblicato sul numero di Business People, gennaio-febbraio 2020

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(foto Getty Images)