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E-commerce, questo sconosciuto: piace agli italiani, non al made in Italy

Numeri di acquisti e clienti in forte crescita, ma il 70% dei prodotti viene acquistato su piattaforme straniere

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Incredibile a dirsi, ma per una volta gli italiani sono già fatti mentre l’Italia – quella dell’e-commerce – è ancora tutta da costruite.

Il commercio elettronico piace sempre più ai consumatori tricolori: 13 miliardi di acquisti in crescita, anche se i numeri dei concorrenti europei (Francia, Germania e Gran Bretagna) sono lontanissimi oltre quota 80 miliardi. Ma il fenomeno è in crescita, mentre le nostre aziende sono in ritardo.

I 16 milioni di connazionali che hanno comprato online si sono rivolti infatti finora ai grandi gruppi americani – 20 dotcom da Amazon in giù – per il 70% dei prodotti (dati Netcomm) e il 54% dell’intero mercato (compresi turismo e assicurazioni).

«Una percentuale che mette in luce le debolezze degli operatori tradizionali. Ancora stentano a interpretare l’online come un reale canale alternativo e per questo non riescono a giocare un ruolo da protagonisti», dice Alessandro Perego, responsabile scientifico dell’Osservatorio e-commerce B2C del Politecnico di Milano.

NOVITA’ IN ARRIVO. Eppur qualcosa si muove, come segnala la Stampa. Tra poche settimane arriverà Italydock, che distribuirà nell’Ue i prodotti di 60 piccole aziende, voluta dal governo e realizzato dall’agenzia Ice.

Solo pochi giorni (11 novembre) ci separano invece dal debutto sul colosso cinese Alibaba di un’area per i nostri marchi.

OCCASiONE UNICA. Due passettini per intraprendere con più convinzione la strada indicata dalla Banca Mondiale che da anni segnala la via del Web come quella principale per il futuro delle pmi grazie a spese basse, magazzini snelli e mercato potenzialmente globale.

«Abbiamo un problema culturale, di visione: le imprese che vendono online sono solo il 4% del totale, e l’accesso alla banda larga rimane carente», ammette il presidente di Netcomm, Roberto Liscia, «ma c’è un nuovo tipo di cliente, il “superconsumatore” col pieno controllo del processo di acquisto. Compra online e usa Internet per fare acquisti tradizionali e consapevoli».

In sostanza: chi si avvicina a una vetrina, ormai, conosce il vero prezzo di un prodotto e le sue caratteristiche. «Il 40% degli acquisti tradizionali è influenzato da quanto visto online», prosegue Liscia, che all’inizio del 2015 lancerà un marchio europeo per aumentare la fiducia dei clienti. «Ora il digitale vale solo il 3,5% delle vendite retail, c’è spazio per crescere».

Una boccata d’ossigeno è arrivata dalla diffusione dei dispositivi mobili: gli affari via smartphone nel 2014 hanno fatto registrare un incremento del 100%, superando gli 1,2 miliardi di euro. Se si aggiungono le transazioni via tablet, l’incidenza delle vendite da mobile raggiunge il 20% del totale. «Anche se le aziende riconoscono le potenzialità della trasformazione digitale, sono ancora poche quelle che le stanno già impiegando come leva di crescita effettiva», dice Mike Sutcliff, numero uno di Accenture Digital.

Il governo, oltre ad accelerare sulla promozione, si sta muovendo anche sugli incentivi: nei giorni scorsi è stato sbloccato il voucher per la digitalizzazione delle Pmi. La misura prevede un massimo di diecimila euro che le aziende possono incassare e spendere in hardware, software o servizi che favoriscano l’innovazione tecnologica.

Una goccia nel mare, forse, ma anche un tentativo di contrastare la «delocalizzazione 2.0»: la Svizzera, infatti, ha iniziato a sedurre anche gli imprenditori digitali. E un colosso Usa come Guess, per la sede europea del sito di e-commerce, ha scelto Berna: ad attirarlo una tassazione più bassa e regolamenti più snelli per chi vende e per chi acquista. E per gli scontrini sotto i 150 euro, dalla Svizzera all’Italia, non si applicano dazi sulle spedizioni.

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