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Maurizio Ferraris: se puntassimo sul webfare?

I dati che derivano dai nostri comportamenti online si trasformano in ricchezza e noi li cediamo gratuitamente alle diverse piattaforme per piccoli vantaggi pratici. E se invece in cambio ottenessimo un ritorno collettivo, una sorta di welfare digitale? È la proposta del professore di filosofia teoretica

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Ogni volta che andiamo online, cediamo informazioni relative alla nostra persona, ai nostri bisogni, abitudini e preferenze. Queste informazioni si trasformano in dati che, aggregati a quelli di milioni di persone, acquisiscono un grande valore. Quei dati sono nostri, ma la possibilità di trarne ricchezza l’abbiamo ceduta ad altri. Perché allora non cercare di ottenere un ritorno? Un profitto che sia collettivo, così come (solo) collettivo è il loro valore. Un ricavo di carattere sociale, in cambio della cessione di informazioni personali. Una forma di welfare digitale o, se preferite, di “webfare”. Ne ha scritto recentemente Maurizio Ferraris, professore ordinario di filosofia teoretica presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Torino. Lo abbiamo incontrato.

Professor Ferraris, lei scrive che il web ci regala “perline”, ma in cambio drena tesori. Ci vuole spiegare questa metafora? Semplice: con il web posso sapere qual è il prossimo volo per Madrid, il che è utile; ma la piattaforma apprende quanti hanno cercato quella informazione, dov’erano, cosa hanno fatto prima e cosa faranno dopo, e potrà confrontarlo con milioni di altre ricerche ottenendo delle informazioni non sul presente, ma sul futuro. Ossia ottenendo quelle che si chiamano “profilazioni” e che, nella fattispecie, possono permettere a una E se puntassimo sul compagnia aerea di far partire gli aerei sempre pieni. Il che è un bel vantaggio economico, un vantaggio che spinge la compagnia aerea a pagare la piattaforma per poter avere i dati che noi le abbiamo dato gratis.

Un po’ come i nativi americani di fronte ai conquistadores, però, anche noi reputiamo vantaggioso questo scambio. Cos’è che non vediamo? Il processo che ho appena descritto. Ma se i nativi erano scusati dal fatto di appartenere a una cultura diversa dai conquistadores, noi abbiamo molte meno scusanti. Anzi, a questo punto non ne abbiamo nessuna.

I nuovi conquistadores sono mega compagnie transnazionali, ricche e potenti. Noi “nativi” siamo inconsapevoli e divisi.E stupidi, o almeno non tanto svegli e poco disposti a usare il cervello. Le compagnie sono diventate potenti capendo il valore dei dati, ossia, appunto, usando il cervello in modo creativo. E noi? Non parlo delle persone normali, che hanno da fare e dunque altro a cui pensare, ma ai professori che pensosi riflettono sul web. Cosa riescono a tirar fuori, il più delle volte? Geremiadi sulle mega compagnie transnazionali ricche e potenti, sul capitalismo di sorveglianza, sul capitalismo tout court, cose che permettono di svolgere senza troppo sforzo una routine accademica (con le lamentele si possono riempire pagine su pagine), ma che non cambiano di una virgola la situazione. Perché, invece di descrivere le cattiverie dell’orco capitalista, non trovare dei modi per adoperare a vantaggio dell’umanità il patrimonio che essa stessa produce? Perché non dobbiamo dimenticare che i dati sono anche nostri, e che le leggi europee ci permettono di ottenerli per noi senza toglierli alle piattaforme.

I governi non sembrano essere in grado di proteggerci o rappresentarci. Possono avere qualche ruolo in questo mercato? Ce l’hanno, se sono governi potenti e intelligenti come quello cinese, che protegge e rappresenta sin troppo i suoi cittadini, e che proprio con la nazionalizzazione delle piattaforme e la ridistribuzione del valore che realizzano ha determinato l’enorme decollo economico della nazione, restituendo ai cinesi ciò che producono. Un progetto comunista perfetto, l’unico che la storia abbia sinora conosciuto, che però, come è nella logica di un progetto comunista, ha un prezzo: la rinuncia completa alla libertà. Perché lo Stato, ogni Stato, è interessato al controllo dei cittadini. Non è il caso, invece, delle piattaforme commerciali, che sono interessate solo ai nostri soldi (questa è la buona notizia), ma che non hanno alcuna intenzione di condividere i loro profitti (questa è la cattiva). La sola azione legittima dello Stato in questa materia, secondo me, è far pagare le tasse alle piattaforme.

Lei auspica la presenza di un intermediario, una specie di “agenzia” che ci rappresenti nella nostra totalità e che in qualche modo contratti in vece nostra la cessione dei nostri dati/comportamenti. Ma qual è il reale valore di questi dati? Non c’è un vero mercato per ora che lo stabilisca, e noi siamo abituati ad affidarci al mercato per attribuire un valore alle cose. Il mercato non c’è e deve essere costruito proprio da questi intermediari (importa che siano tanti, e in competizione fra loro): banche, Asl, università. Tutti i soggetti che dispongono di banche dati ordinate (ciò che le grandi piattaforme commerciali non possiedono, tanto che per dar valore ai dati devono ricorrere agli algoritmi), e che possono utilmente incrociarle con i dati social dei loro correntisti, associati, studenti, utenti, ottenendo rispettivamente proiezioni di mercato, conoscenze mediche, conoscenze sociali, che si mettono sul mercato come avviene per il petrolio o le azioni, e si trasformano in capitale. A questo punto diventa possibile disporre dei parametri per determinare in generale il valore dei dati, che le piattaforme liberiste, per ottimi motivi, hanno tenuto fuori dal mercato, e che le piattaforme comuniste, per motivi altrettanto buoni, non hanno mai ritenuto di dover mettere sul mercato. Come dicevo, le piattaforme comuniste ridistribuiscono già gli utili, ma conoscere il valore dei dati delle piattaforme liberistiche è molto utile per gli Stati in cui queste piattaforme producono valore (e non solo per quelli in cui queste piattaforme hanno la loro sede legale): perché a quel punto gli Stati saranno in grado di far pagare davvero loro le tasse.

Qualunque sia il valore di questi dati, non possiamo certo aspettarci di ricevere singolarmente un bonifico mensile sul conto corrente. Lei propone il concetto di welfare digitale, o “webfare”. Ce lo vuole spiegare? Facciamo l’esempio della banca. I correntisti che danno mandato alla banca di recuperare e capitalizzare i loro dati social soldi ne hanno già, tanto è vero che hanno un conto in banca. Si suppone anche che siano persone generose, visto che imprecano contro l’avidità dei conquistadores, delle piattaforme commerciali che tengono per sé profitti che a rigore appartengono all’intera umanità. Sarebbe dunque il colmo che volessero indietro un bonifico risultante dalla capitalizzazione dei loro dati, anche perché l’aspetto interessante dei dati è che valgono tanto di più quanto più sono gli umani che forniscono dati. A meno che siano degli ipocriti e dei fanfaroni nelle loro tirate antiliberiste, si suppone che saranno dunque ben lieti se, poniamo, il miliardo di euro della capitalizzazione non sia ridistribuito tra il milione di correntisti (farebbe mille euro all’anno, ossia meno di cento euro al mese) ma consentisse di versare 10 mila euro a 100 mila poveri che non hanno un conto in banca, ma che possiedono un telefonino, e che hanno aperto un conto in dati presso la banca, aumentandone il capitale di dati e avviano un percorso di cittadinanza sostanziale e non solo formale. Perché i diritti e al limite i documenti sono ben poco, sino a che non si hanno anche dei soldi.

Oggi i conquistadores ci permettono di ricevere comodamente a casa con un click libri e frullatori scontati, ci guidano per le strade di città che non conosciamo, ci permettono di comunicare gratuitamente con amici che vivono dall’altra parte del mondo. Basterà la promessa del “webfare” per convincerci a forzare la mano nei loro confronti quando comprensibilmente si opporranno a questa nuova idea di mercato? Non potranno opporsi perché c’è già una legge europea che li obbliga a dare a ognuno di noi i propri dati. Da quel punto di vista non ci sono né rischi né difficoltà. L’ostacolo semmai è un altro, e dipende non dalle nequizie del capitale, ma dall’egoismo degli esseri umani, usi a rimproverare le piattaforme ma pronti a comportarsi come loro appena possono. L’egoismo di chi dirà che i mille euro all’anno li vuole per sé e non per chi non ha soldi e ha aperto un conto in dati. O l’egoismo di chi già oggi si rallegra per la nascita di piattaforme non centralizzate, basate sulla tecnologia della blockchain, in cui ognuno rimane proprietario dei dati che produce. Facendo sfumare l’enorme possibilità di disporre di un capitale completamente nuovo, nato dall’umanità e destinato all’umanità e non ai singoli, e con l’aggravante, rispetto ai conquistadores, di non avere neppure attraversato il mare, riconosciuto un tesoro, prese delle decisioni, usato il cervello, corso dei rischi.

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Oltre a insegnare Filosofia teoretica all’Università di Torino, Maurizio Ferraris è presidente del Labont (Center for Ontology) e dirige “Scienza Nuova”, istituto per la progettazione di un futuro sostenibile. Fondatore del Nuovo realismo, è visiting professor a Harvard, Oxford, Monaco e Parigi e autore di più di 60 libri