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Lavoro

Conflitti di squadra

Il team è un modello di business sempre vincente? Secondo alcuni imprenditori in molti casi prendere decisioni è compito di uno e uno solo

Un’azienda di consulenza manageriale di Milano per spiegare in che cosa consista il gioco di squadra a dei manager che evidentemente ne avevano grosso bisogno, li portò nella cucina di un ristorante. Lì si accorsero che i piatti da riempire erano moltissimi, i clienti pure e che se non si organizzavano in modo militare non ne sarebbero mai venuti a capo. Piano piano, dividendosi le responsabilità, riuscirono a comporre la cena. Altre società di consulenza preferiscono affidarsi a esercizi più “maschi” facendo scontrare su un campo di rugby le squadre di manager che non hanno chiaro come e perché dovrebbero fare squadra con il loro vicino di scrivania. Insomma: ci si inventa un po’ di tutto per introdurre nelle aziende il concetto di squadra (all’americana: team building) che da sempre è l’obiettivo verso il quale, secondo i formatori, il manager medio dovrebbe tendere. Ma siamo così sicuri che sia il modello organizzativo ideale? O, più smithianamente (da Adam Smith) non sia meglio che ognuno, facendo i propri interessi ed esclusivamente quelli, non faccia anche indirettamente quelli degli altri, cioè dell’organizzazione nel suo complesso? Ovvero: è meglio rinunciare a una parte della propria creatività, esuberanza e leadership per metterla al servizio della squadra oppure è meglio che ci sia un solo uomo al comando che prenda le decisioni per tutti e che tutti lo riconoscano (con le buone o con le cattive) come il leader?

Meglio soli che…

Bella domanda. È quella contro la quale da sempre le aziende si scontrano. Luca Cividini, alla guida dell’omonima azienda di famiglia nel bergamasco, che opera nel settore delle costruzioni industriali d’alta gamma, non ha nemmeno un dubbio.

«Un uomo solo al comando e poche chiacchiere». E spiega: «Questo momento di difficoltà dell’economia ha fatto emergere il ruolo del manager, ma secondo la mia esperienza e la mia cultura, questo è fondamentalmente sbagliato. Il manager può essere anche ottimo, ma non avrà mai la visione d’insieme dell’azienda che ha un imprenditore. Da parte sua l’imprenditore avrà certamente molti difetti, tra i quali una maggiore superficialità, ma è l’unico in grado di tenere insieme tutti, o almeno, la maggior parte degli aspetti del proprio business». Secondo Cividini, insomma, il manager è strutturalmente portato a fare gioco di squadra mentre l’imprenditore è strutturalmente portato a gestire in solitudine «ma senza esagerare, io non credo alle aziende dove un uomo non fa toccare nemmeno una carta ai suoi collaboratori, ma analogamente non credo nemmeno alle imprese dove le decisioni vengono prese in team».All’estremo opposto c’è Enrico Casini, manager da sempre. Casini è uno che, quando era a capo dell’operatore di telefonia mobile Blu, riuniva in sala riunioni i suoi manager e scriveva in vernice rossa sul muro gli obiettivi aziendali «come avessimo usato il nostro sangue», ricorda. Poi i contrasti insanabili tra i soci hanno fatto fallire quella esperienza imprenditoriale, ma non quello spirito. «Oggi la complessità media delle decisioni di vertice è tale che è più efficiente mettere a fattore comune, nel team di vertice, capacità di elaborazione e conoscenza in un processo di leadership», spiega Casini, «e questo non tanto per una ragione di democrazia, o di sviluppo del senso di partecipazione, ma di efficienza e di efficacia complessiva». Sembrano ragioni inconciliabili ma un ragionevole equilibrio tra queste due modi di intercedere la leadership l’ha raggiunto Michael Porter, riconosciuto guru mondiale del management da quando nel 1979, da giovane professore, pubblicò un articolo nel quale spiegava le cinque forze (concorrenti diretti, fornitori, clienti, potenziali entranti, produttori di beni sostitutivi) che consentono a un’impresa di stabilire il proprio grado di competitività. Nelle sue “sette sorprese per i nuovi ceo” Porter spiega, al primo punto (ci sarà un perché) che il ceo appena nominato deve capire immediatamente che da solo «non può dirigere l’azienda» e che, quindi, per farlo, deve costruire intorno a sé un team di comando. Ma è davvero così? Non proprio. Porter, infatti, da una parte insegna a «gestire il contesto organizzativo» ma dall’altra spiega anche che «non ci si può aspettare la lealtà dell’organizzazione». In altre parole, brutalizzando la sua visione del problema, si può dire che Porter è più per una visione di «un uomo solo al comando». Robert Reich, ministro del lavoro durante la presidenza Clinton, che secondo la rivista Fortune è la terza persona al mondo dalla quale si può imparare come gestire un’azienda, è, invece, più per una visione “comunitaria”. Reich, coerente con la sua fede democratica, sembra decisamente più orientato a fare “gioco di squadra”.

Imprenditori solisti

Tuttavia la divisione vera, quella insanabile, quella che nemmeno Porter o Reich riuscirebbero a conciliare, è quella tra imprenditore e manager. «Io sono a favore del gioco di squadra», dice conciliante Francesco Casoli, fondatore di Elica (leader nel settore cappe da cucina), «ma anche al fatto che alla fine sia uno solo a prendere la decisione assumendosene per intero la responsabilità.

E questo, fatalmente, si trasforma nel fatto che uno prende una decisione da solo, punto e basta, soprattutto quando ci si trova a gestire un’organizzazione che è stata messa in piedi dalla stessa persona che la guida. Gli imprenditori sono solisti, solitari, egocentrici. Come fanno a creare un team?». Ma il discorso non si esaurisce qui. Perché, per dirla tutta, il problema vero è che questa crisi ha mandato in tilt il sistema di governance aziendale incentrato su un ceo motore immobile dei destini dell’impresa della quale è a capo. La governance “europea” basata su una maggiore collegialità, d’altra parte, mostra tutti i giorni i limiti della burocratizzazione dei processi decisionali. Lo spiega bene Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Strategy Consultants Italia che, prima di tutto, premette: «Sono le doti di leadership che fanno funzionare bene un modello di governance piuttosto che il modello in se stesso». E poi aggiunge: «La crisi ha fatto nascere parecchi interrogativi circa la sostenibilità del modello di governance anglosassone incentrato sulla figura del ceo al vertice delle corporation che accentra tutti i poteri ed è il garante della creazione di valore. D’altra parte i modelli di governance, originati in Germania e basati sul modello di dual governance con il supervisory board e il management board non sempre sono riusciti a esprimere un’alternativa convincente come si è visto per esempio nella recente vicenda di A2A (dove il conflitto tra consiglio di sorveglianza e consiglio di gestione è finito in tribunale, ndr). Per questo negli Usa gli orientamenti che emergono sono quelli di affiancare al ceo un sistema di governance più articolato attraverso board of director più consapevoli e attivi nel validare e indirizzare le decisioni e in alcuni casi nell’affiancare al ceo un chairman o un executive committee con maggiori poteri». Una via di mezzo, insomma, che dovrebbe essere condivisa da Pierluigi Celli, manager da una vita, che ha lavorato in organizzazioni che definire complesse è un eufemismo (basti pensare alla Rai). Celli è forse il maggiore esperto italiano di management e ha sempre creduto molto nella creazione del team: da amministratore delegato di Ipse organizzava con tutti i dipendenti tour di degustazione di formaggi nel week end o feste aziendali a base di porchetta. Poi ha scritto Comandare è fottere, che non è esattamente la stessa cosa. Convertito alla leadership di stampo “amerikano”? «Ma quale convertito? In quel libro io prendo in giro quei manager più preoccupati della loro carriera e del loro potere che del successo dell’azienda che dirigono e per questo passano il giorno a cercare di fare le scarpe a chi gli sta sopra, chi gli sta sotto e al proprio team. Io non mi sono affatto convertito. Per me comandare non è mai fottere».