Come si collegano le storie dei del Valle nei suoi libri?
Non ne ho idea. Io inizio a scrivere e appaiono dei personaggi, spesso legati alla mia nonna materna. A volte sono già a pagina 50 e mi rendo conto che un personaggio potrebbe appartenere alla famiglia del Valle e gli cambio nome. Non lo programmo. In Ritratto in seppia, Severo del Valle perde una gamba; in La casa degli spiriti ne ha due: questo è realismo magico.
Come fa a mantenere la sua bambina interiore così viva da scrivere con la sua voce?
Non ho più una vita mia. Non faccio altro che scrivere. Mi chiedono dove trovo l’energia per farlo. Non la spendo in altro: non cucino, non ho una vita sociale, scrivo e basta. E questo mi dà energia. Vivo nell’universo del romanzo. Divento ogni personaggio, dall’infanzia alla vecchiaia.
C’è spazio per un’Emilia nella società di oggi?
Sono circondata da Emilie. Ho una fondazione che lavora principalmente con le donne e che sostiene i diritti riproduttivi e gli immigrati negli Stati Uniti. Entro in contatto con tante donne coraggiose, in prima linea, che rischiano l’arresto. Sono come Emilia, in un altro tempo, in un’altra circostanza, ma sono circondata da queste persone. Non devo inventarle.
Quanto c’è di lei in questa storia?
Emilia scrive di ciò che le interessa, io invece compaio tra le righe. I temi che tratto sono la violenza, l’amore, la perdita e la lealtà. Se non riesco a immedesimarmi in un personaggio, non sono in grado di scriverlo. E molti personaggi sono ispirati a persone reali.
Quale dei suoi libri l’ha aiutata di più?
Due libri mi hanno aiutato molto. La casa degli Spiriti, perché l’ho scritto con grande innocenza, senza sapere cosa stessi facendo, e mi ha fatto uscire da un’esistenza banale. All’epoca vivevo in esilio in Venezuela. Sentivo che la mia vita non stava andando da nessuna parte. La casa degli Spiriti mi ha dato una voce e ha tracciato la strada per tutti i libri che sono venuti dopo. Un altro libro che mi ha aiutato molto è stato Paula. L’anno in cui mia figlia è stata in coma, prima che morisse, è stato come una lunga notte. Ero così confusa e ferita che non riuscivo a capire bene cosa fosse successo. Quando morì, mia madre venne dal Cile e mi diede le centinaia di lettere che le avevo scritto dall’ospedale di Madrid e dalla California. Le aveva disposte in ordine cronologico e mi disse: «Leggile per capire che l’unica via d’uscita per Paula era la morte». E scrivendo quel libro, direi con le lacrime, è iniziato un processo di comprensione di ciò che era accaduto, di accettazione e di guarigione.
(intervista di Cristina Alonso)