Appello (ennesimo) all’Europa

Appello (ennesimo) all’Europa© Getty Images

Ebbene sì, lo confesso: sono in fissa. Ne ho già scritto ed elucubrato in diverse occasioni su queste pagine, ma non riesco a fare a meno di riflettere sulla collettiva illusione infranta di noi europeisti davanti alla fragilità strategica mostrata dalle istituzioni del Vecchio Continente di fronte alla questione dazi.

L’Europa si scopre più vulnerabile di quanto volesse ammettere. I dazi trumpiani si sono di fatto rivelati uno stress test per la capacità dell’Unione Europea di difendere la propria economia, la propria industria, il proprio modello. Un test che, per ora, rischiamo di toppare clamorosamente. La non brillante trattativa tra rappresentanti Ue e Usa ha dimostrato plasticamente che non serve difendersi negoziando sconti sui dazi, se alle spalle non c’è una solida e condivisa politica economica europea.

L’impressione, sempre più netta, è che l’Unione Europea sia stata costruita per affrontare le crisi del passato, ma sia disarmata di fronte a quelle del presente.

L’assenza di una politica industriale comunitaria è oggi la principale debolezza del nostro Continente. Un Continente che ha dimostrato di non aver saputo ancora costruire una rete solida per attrarre investimenti, tutelare la produzione o garantire una posizione forte al tavolo delle trattative internazionali. E il paradosso è che sebbene gli Stati Uniti dipendano da diverse nostre filiere, siamo noi a dover rincorrere, giustificare, adattarci. Perché? Perché non esiste un coordinamento economico centrale in grado di trasformare il potenziale europeo in potere contrattuale.

La crisi attuale non riguarda solo i rapporti con l’esterno. Anzi, mette a nudo anche le fragilità interne dell’Unione. A mancare è un vero senso di comunità, un legame solidale tra economie diverse ma interconnesse. I Paesi del Nord guardano ai propri bilanci, quelli del Sud alla sopravvivenza industriale, mentre le grandi potenze globali – Stati Uniti e Cina su tutte – fanno sistema, usano strumenti anche coercitivi (vedi Big tech) per proteggere e promuovere i propri campioni industriali.

Se l’Europa vuole contare davvero, deve imparare a fare lo stesso: serve una visione strategica comune, che investa nella manifattura avanzata, nella transizione ecologica, nell’innovazione tecnologica (AI in primis). Così come urge un’etica della solidarietà economica tra Stati membri, per non lasciare soli i comparti imprenditoriali più vulnerabili. La debolezza dell’Europa sul piano economico ha un riflesso inevitabile sul piano geopolitico.

Senza una solida base economica e industriale, senza un’autonomia strategica, l’Europa non può avere un ruolo nel mondo. E, come dimostrano le scelte unilaterali di Washington, non basta più essere “partner storici” per essere ascoltati. Il progetto europeo rimane, quindi, incompiuto. Forse, i dazi potrebbero rivelarsi un’occasione amara ma utile per aprire gli occhi, per renderci conto che non possiamo più limitarci a essere una somma di Stati con regole comuni, urge diventare una comunità con un comune destino economico e politico. L’Europa continua a essere un mercato, è tempo che si trasformi in una potenza economica.

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