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Attualità

Multilateralismo: ipocrisia politica

Secondo il segretario generale dell’Onu, i principali esponenti dell’Ue e dei suoi Stati membri questo nuovo quadro politico aiuterà la ripresa nel mondo. Ma le loro azioni, il più delle volte, non sembrano in linea con gli annunci teorici, il che giustifica un certo scetticismo…

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Nonostante le ondate pandemiche non si siano esaurite e si viva ancora in lockdown intermittenti, la campagna vaccinale in corso dovrebbe consentire un ritorno alla normalità in tempi ragionevoli. Ma quale sarà la nuova normalità? Forse, quella descritta nella lettera firmata dal Segretario generale dell’Onu Antonio Gutierrez, dai presidenti di Commissione e Consiglio europeo, Ursula von der Leyden e Charles Michel, da quelli di Francia e Senegal, Emmanuel Macron e Macky Sall, ma soprattutto dal vero peso massimo, la cancelliera tedesca Angela Merkel, resa nota lo scorso febbraio con il titolo Il multilateralismo aiuterà la ripresa del mondo. Il testo, spiace dirlo, è un lungo elenco di buoni propositi, ovvietà e dimenticanze e, infatti, è caduto letteralmente nel vuoto. Gli estensori, denunciando stupefatti lo strano aumento delle disuguaglianze pur in tempi di bilanci floridi, fanno un appello «per una crescita economica più inclusiva, trainata da un commercio basato su regole condivise e standard elevati», vedendo nel quadro politico post-pandemico l’occasione per «un nuovo multilateralismo che non lasci indietro i più poveri, che non alimenti le diseguaglianze e anzi le riduca» e che coniughi sviluppo e ambiente. Né si dimenticano di scomunicare nazionalismi e sovranismi, di cui ignorano l’origine e che ovviamente mettono sullo stesso piano, in ossequio a una lettura tanto culturalmente infondata quanto mediaticamente diffusa.

Sulle virtù taumaturgiche del multilateralismo si esercitano da mesi quasi tutti i centri studi di politica internazionale ma anche gli opinionisti di prima classe, nonché i leader europei, i quali credono che a far la differenza sia la sconfitta di Donald Trump, che renderà possibile un riavvicinamento tra Unione europea e Stati Uniti. Non poteva essere più chiara la cancelliera tedesca quando lo scorso febbraio ha detto che «le prospettive del multilateralismo quest’anno sono di gran lunga migliori di quanto non lo fossero due anni fa e questo ha molto a che fare con l’elezione di Joe Biden a presidente degli Stati Uniti». Bruxelles probabilmente sta facendo i conti senza l’oste (vedi intervista) ma non è questo il problema principale, quanto la mancanza di credibilità degli improbabili samaritani. L’Unione è la stessa che, mentre predicava apertura e dialogo, faceva la guerra alla Gran Bretagna sulla Brexit e allo stesso tempo ricorreva al blocco dell’export dei vaccini, chiara misura di sovranismo europeo, e che in politica economica gioca da anni al piccolo mercantilista. E sui diritti umani l’Europa fa sul serio? A vedere i tappeti rossi che vengono stesi alla Cina qualche dubbio può venire. Ma gli Usa sono più credibili? La domanda è lecita, visto che nelle stesse ore in cui gli opinionisti italiani celebravano l’eroe Biden, quest’ultimo emanava un ordine esecutivo molto trumpiano, con il quale imponeva alla Pubblica amministrazione il principio del buy American. Non contento, mentre annunciava al mondo che «l’America è tornata», per rendere più chiaro il messaggio, mandava i suoi caccia a fare una visita di cortesia in Siria.

Gli stessi dubbi possono venire quando si parla di crescita inclusiva, tema sul quale sia Merkel che Macron si sono esercitati parecchio. La prima, con il suo predecessore Gerhard Schroeder, è l’artefice di quel modello tedesco – poi imposto a tutta l’Eurozona, con i ben noti risultati deflazionistici – che a colpi di liberalizzazione del mercato del lavoro, demolizione della contrattazione collettiva e precarizzazione, ha consentito una robusta compressione dei diritti dei lavoratori e dei salari di una buona parte degli stessi, processi brillantemente descritti, tra gli altri, dall’economista tedesco Steffen Lehndorff. Quanto al presidente francese, basterebbe chiedere all’Institut des Politiques Publiques di Parigi com’è cambiata la distribuzione della ricchezza in Francia grazie alle sue politiche, oppure parlare con qualcuno che indossi un gilet giallo.

Poi c’è il capitolo lotta alla povertà e politiche per lo sviluppo. Di come la Cina saccheggi l’Africa, si è scritto molto, ma ci si scorda di dire che questo gioco l’ha inventato l’Occidente e che lo pratica ancora con molto profitto. Coniando una nuova espressione, si potrebbe parlare di Fracking Economics, cioè di quella tecnica per cui si iniettano risorse in un Paese per estrarne di più. In The Divide: A Brief Guide to Global Inequality and its Solutions (2017), l’antropologo economico Jason Hickel racconta questa rapina continua e ne fornisce le cifre, semplicemente aberranti. Il Global Financial Integrity e la Norwegian School of Economics, per esempio, hanno calcolato che nel 2012 l’Africa Subsahariana, tra aiuti e investimenti, ha ricevuto 2 mila miliardi di dollari ma nello stesso anno 5 mila miliardi di dollari hanno seguito il percorso inverso. Lo strumento prediletto è sempre l’aggiustamento strutturale, «spacciato come precondizione necessaria per un effettivo sviluppo del Sud del mondo ma che ha finito per fare l’esatto contrario: le economie si sono contratte, i redditi sono crollati, milioni di persone sono state espropriate delle loro terre e la povertà è schizzata alle stelle». Ai Paesi in via di sviluppo, questi programmi – tra gli anni 80 e i 90 – sono costati annualmente 480 miliardi di dollari, «quasi il quadruplo della cifra che viene stanziata ogni anno per gli aiuti».

Per quanto riguarda la salute delle democrazie, non c’è molto da inventare nemmeno qui. Ormai è assodato quanto questa sia legata alla condizione dei ceti medi. Terremotare questi ultimi con politiche che li assottigliano, significa esporre le prime a instabilità e alta conflittualità sociale, aprendo la via a forze antisistema. I nemici di nazionalismo e sovranismo dovrebbero saperlo. In breve, non sarà il multilateralismo a risolvere i mali del mondo, perché non è la sua mancanza ad averli generati. E infatti Merkel & Co. prospettano una guarigione ma si guardano bene dal dire quali siano i sintomi da combattere, perché a quel punto diventerebbe chiaro che chi vende la cura è lo stesso che ha regalato il veleno. Il mondo venturo, però, sarà migliore solo se si avrà il coraggio della chiarezza e se si interverrà sulle leggi che disegnano i rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra centro e periferia. Magari rimuovendo contemporaneamente chi ha scritto, imposto e difeso quelle a misura di corporation, che ci hanno dannato.

Articolo pubblicato su Business People, aprile 2021

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