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Lifestyle

Made in Italy non basta la parola

Imprenditori e i-prenditori, Santo Versace spiega la “sua” legge

Qual è il problema? Vogliono produrre in Cina il made in Italy? Il concetto che guida questa legge è la trasparenza. Ciascun consumatore, anzi cliente, deve sapere cosa sta comprando». Sorride Santo Versace quando gli viene detto che la legge da lui firmata ha suscitato qualche perplessità nel mondo della moda. «È un’iniziativa contro la contraffazione, la quale genera evasione fiscale, lavoro nero, finanziamento alla malavita organizzata, sfruttamento minorile. Made in italy significa semplicemente “fatto in Italia”. E non mi venissero a dire che il luogo in cui avvengono produzione e assemblaggio non contano nulla. Stiamo attenti: quando Louis Vuitton ha deciso di realizzare scarpe di qualità ha acquisito gli stabilimenti di Luigino Rossi. E da chi è andato Tom Ford per farsi produrre la linea uomo? Da Zegna. La verità è che in Italia ci sono gli imprenditori veri, che hanno un’educazione alla cultura, alla legalità e alla trasparenza e imprenditori che tendono a rimestare nel torbido. Poi ci sono quelli che io chiamo prenditori. Niente scuse: la manodopera e le maestranze ci sono. Io dico sempre che in Italia da una parte abbiamo fomentato il disprezzo per il lavoro manuale, e dall’altra andiamo nei musei a vedere i capolavori di Bernini, Canova, che altro non erano che lavoratori manuali. Certo, bisogna dare nuovo impulso alla formazione: avevamo gli istituti tecnici più belli del mondo, ma sono stati distrutti dal ‘68. Ora stiamo cercando di ripristinarli». E cosa ne pensa Santo Versace delle critiche rispetto alla scarsa considerazione all’interno del provvedimento della concorrenza a livello internazionale? «Vogliono far passare lo stile italiano per il made in Italy? Se un prodotto è pensato in Italia, ma è realizzato in Cina, l’importante è che sia offerto con il giusto rapporto qualità-prezzo.Chi non condivide questa legge spesso è portatore di interessi particolari. Questa norma non fa altro che tutelare chi produce davvero in Italia. Del resto, quando si esporta in America o nella stessa Cina noi siamo obbligati ad applicare l’etichetta di provenienza. Parlando di mercato, tutti gli altri Paesi hanno facile accesso al Vecchio continente, senza che l’Unione pretenda reciprocità dalle altre piazze. Speriamo sia anche uno stimolo perché l’Europa acceleri il processo di redazione di un proprio regolamento».

COSA DICE IL DDL

Articolo 3Nell’etichetta l’impresa produttrice deve fornire informazioni specifiche sulla conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro Articolo 4L’impiego dell’indicazione “made in Italy” è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione hanno avuto luogo prevalentemente sul territorio italiano, e in particolare se due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità

IL TAROCCO COSTA

  • 50 miliardi di euro l’anno la perdita economica del sistema Italia generata dal falso made in Italy

  • 12 miliardi di euro l’anno è l’impatto sulle imprese tricolore

  • 20 mila posti di lavoro la ricaduta in termini occupazionali

Fonte: camera di commercio Monza e Brianza

Credits Images:

Santo Versace