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Editoriale

Alitalia dimostra che…

Non so se anche voi avete la mia stessa sensazione, ma più passa il tempo, più mi convinco che la questione Alitalia sia una sorta di nemesi della difficoltà per l’economia italiana di trovare una via reale di sviluppo. Non c’è spazio per ripercorrere qui le tappe della vicenda, mi basti dire però che ritrovarsi oggi dopo anni di esosi salvataggi di Stato e di coinvolgimenti internazionali, con l’ennesimo quesito amletico sul se e come continuare a mantenere a nostre spese migliaia di dipendenti del vettore ex nazionale, mi sembra una maledizione senza fine. Mi sembra l’assordante sconfitta di chi si riempiva la bocca di salvataggi in virtù di una presunta “italianità d’impresa” (vedi un certo Berlusconi, ma non solo) e di chi moraleggiava che non si potevano lasciare a casa migliaia di dipendenti (vedi i soliti sindacati). Il tutto come se le altre migliaia di aziende, che in questi anni sono state costrette a chiudere baracca e burattini con conseguente licenziamento dei lavoratori, non avessero pari diritto di cittadinanza. Insomma, sarebbe come dire che esistono imprese e lavoratori più italiani di altri. E il guaio è che anche la vicenda Mps si avvia a trasformarsi in un’ulteriore maledizione per le già fin troppo dissestate casse pubbliche, perché ancora ai nostri soldi toccherà salvare una banca che manager e politici conniventi hanno trasformato in una trappola per risparmiatori e in una bengodi per scialacquatori compulsivi e ladri in grisaglia.

C’è un aspetto nel nostro ammorbante

paternalismo di Stato, che ci sta fregando

E fin qui pazienza, visto che se dovesse franare il sistema bancario, salterebbe tutto per aria. Ci si augurerebbe almeno che stavolta si facesse però tesoro dell’esperienza di un’altra beneficiata eccellente, l’allora Fiat e oggi Fca, che dopo decenni di foraggiamenti statali ha scoperto la sua anima privatistica riuscendo a trasformare due debolezze, la sua e quella di Chrysler, in una forza. Ma perché ciò fosse possibile è dovuta sbarcare sul suolo statunitense, dove è riuscita a mettersi in gioco in un contesto competitivo dove lo Stato non solo dà (e, quel che è importante, poi chiede indietro) ma soprattutto controlla, affinché le condizioni poste siano rispettate al millimetro. Pena il venir meno dell’appoggio pubblico, nonché la galera per chi se ne approfitta. Qui da noi invece, una volta ricevuti i benefici, manager e azionisti si danno alla bella vita, tanto nessuno gliene chiederà conto, se non alle soglie dell’ennesima crisi, quando si tratterà di rimettere mano al portafogli tricolore. È una condanna. E dire che nel frattempo, in Usa, Fca annuncia investimenti per un miliardo di dollari e relativi duemila nuovi posti di lavoro, anche perché lì non deve fare i conti con il nostro livello di tassazione e la nostra rigidità contrattuale in materia di lavoro… Mica scemo il Marchionne!

Insomma, non so se anche voi avete la mia stessa sensazione, ma in tutto ciò c’è qualcosa che non quadra. C’è un aspetto nel nostro ammorbante paternalismo di Stato che ci sta fregando. C’è qualcosa di marcio in questa politica senza attributi, che vuole apparire sensibile mentre è solo ruffiana, perché lascia le imprese sane in balia dei controlli burocratici e quelle malate al riparo di manine compiacenti. Oggi più che mai sono convinto che ci sia qualcosa da aggiustare in un Paese e in un’Europa che, assediati a Oriente dalle Tigri asiatiche e a Occidente dalla ventata liberista degli Usa di Trump e della Brexit, assistono imbambolati come un pachiderma con lo sguardo fisso sul passato.