
Quella dei rider è la categoria senz’altro più nota dei cosiddetti gig worker, ma rappresenta solo una piccola parte di questa tipologia di lavoratori in cui rientrano anche baby-sitter, infermieri a domicilio nonché alcuni dipendenti dei supermercati e della sanità (foto © Getty Images)
Quando, come un’ombra, la pandemia si è allungata sul mondo, paralizzando un Paese alla volta, la società ha scoperto di dipendere dalla gig economy e dai suoi addetti: scaffalisti dei supermercati, rider e fattorini della food and good delivery, che con i negozi chiusi sono diventati salvifici. E poi baby-sitter, infermieri a domicilio, ecc. Il coronavirus li ha portati in primo piano, facendoci scoprire che quello dei gig worker è un mondo nuovo, ancora poco conosciuto, nonostante la sua centralità. Business People ne ha parlato con Francesco Bacchini, docente di Diritto del lavoro all’Università Bicocca di Milano, che da anni studia questa nuova realtà.
L’emergenza sanitaria e il conseguente lockdown hanno dimostrato che, pur in piena Quarta rivoluzione industriale, abbiamo bisogno della gig economy e dei gig worker. Non è strano?
È una situazione paradossale ma fino a un certo punto, perché l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha evidenziato come le attività lavorative strettamente necessarie siano quelle più “umili”, che hanno come protagonisti i lavoratori “meno qualificati”.
Chi sono?
Si tratta di una galassia ampia e composita, all’interno della quale rientrano i gig worker, cioè i lavoratori della gig economy, e una sua sotto partizione molto importante, la platform economy
con i suoi platform worker
, di cui i rider sono i lavoratori più noti. Ma a questi potremmo aggiungere baby-sitter, badanti, coloro che prestano assistenza sanitaria domestica ecc. Secondo una ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti del 2018, stiamo parlando di circa 700 mila persone, delle quali i rider sono poco più di 10 mila, il che vuol dire che tutti gli altri lavoratori della gig economy sono la maggioranza. Tuttavia, si parla poco di loro e molto di rider.
Perché?
Perché, complici alcune sentenze, sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche perché su di loro si è spesa un po’ di politica, quella spicciola, per intenderci. Il fenomeno, come capita spesso in questo strano Paese, è più costruito che reale. Sembra globale ma in realtà non lo è. Molto più globale e complessivo è il fenomeno dell’economia dei lavoretti, della gig economy, che l’evoluzione tecnologica però sta portando dentro la dimensione digitale, in quanto anche quei lavoratori ai quali accennavo poco fa – baby-sitter, badanti ecc – ormai vengono intermediati dalle piattaforme, perché è più facile e più veloce. Quindi il fenomeno ha una sorta di punta dell’iceberg, che è quello dei rider, ma sotto la superficie c’è la parte più rilevante, che essendo sott’acqua è anche particolarmente confusa, composta da molti altri operatori della gig economy che si stanno sempre più digitalizzando e dei quali si conosce ben poco in termini di contratto e tutele lavoristiche.
Immagino si tratti di un universo policromo e difficilmente catalogabile.
E questa è la ragione per la quale molti giuristi del lavoro che come me uniscono l’attività accademica a quella professionale lo prendono come riferimento di una evoluzione, probabilmente non più contenibile, che sposta il lavoro dalla tradizionale subordinazione localizzata – dentro una fabbrica, uno stabilimento, negozio, ufficio – a una modalità di prestazione sempre più destrutturata e incline a muoversi nell’ambito dell’auto-direzione, anche se forse non sempre, e dell’auto-organizzazione.
Come si pone il diritto davanti a questo fenomeno?
Fa molta fatica a contenerlo, perché dietro non ci sono le tipologie contrattuali storiche su cui la branca del diritto di cui mi occupo ha costruito la sua storia. Il paradosso è che in questo periodo in cui l’economia e la società sono come congelate, gli unici che si muovono sono proprio i lavoratori delle piattaforme, attratti per certi versi dalla subordinazione ma comunque, intrinsecamente, autonomi. Poi ci sono anche i dipendenti, magari a termine, e sono i cassieri e gli addetti agli scaffali dei supermercati, ma anche tutti gli operatori sanitari impiegati in ospedali, ambulatori, consultori, gli addetti alle pulizie e alla sanificazione. In questo periodo così strano, si assiste per certi versi alla rivincita degli ultimi, perché le professioni essenziali, quelle senza le quali non potremmo vivere, sono le loro, quelle che non collocheremmo al vertice dell’evoluzione tecnica e tecnologica del lavoro.
Tra gli esponenti della gig economy ha incluso anche gli operatori sanitari. Perché?
Avrà notato che il legislatore, nel Decreto legge n°18/2020, ha fatto ricorso alla collaborazione per contrattualizzare i medici e gli infermieri necessari a rimpinguare gli organici degli ospedali. Quindi anche il legislatore usa soggetti assunti con contratti di lavoro non stabile, cioè precario. Cosa ne sarà di queste signore e di questi signori finita l’emergenza, è facile immaginarlo: si proverà a stabilizzarli ma, non essendoci le risorse necessarie, torneranno a fare quello che facevano prima.
Bene, sono lavoratori necessari, quindi saranno tutelati?
La risposta è ni. In linea di massima, potrebbero avere anche loro i sussidi previsti per gli autonomi o i Co.co.co. ma, poiché nella stragrande maggioranza non possono o non vogliono iscriversi alla gestione separata dell’Inps – stiamo parlando soprattutto dei rider – non sono tutelati. Non hanno disoccupazione, né indennità di rischio.
Quando, di recente, la California ha provato a regolamentare la questione con una legge che estendeva agli independent worker le tutele di quelli assunti, alcuni osservatori hanno gridato alla morte della gig economy. Regolamentarla significa necessariamente smantellarla?
La cultura lavoristica statunitense è quanto di più lontano ci sia dalla cultura giuslavoristica europea e, in particolare, da quella italiana. Più in generale, quello che è difficile collocare dentro il perimetro normativo della subordinazione, dovrebbe rimanere lì dov’è. Trasformare i lavoratori autonomi, i collaboratori della gig economy, i platform worker
, i rider ecc. in lavoratori dipendenti, probabilmente non è impossibile ma è sicuramente inutile e controproducente. È invece possibile fare altro, orientandosi verso ciò che l’Organizzazione internazionale del lavoro chiama decent work
cui deve corrispondere un decent wage. Noi dovremmo cercare di trovare delle soluzioni perché tutte le prestazioni di lavoro abbiano un minimo di tutele, anche salariali, capaci di garantire la dignità. E non è il salario minimo legale, attenzione; è una cosa diversa. A mio parere, ridurre tutto al solo corrispettivo economico è troppo parziale. Non c’è solo il denaro. Ci sono molti altri diritti altrettanto significativi, per rendere meno ampio lo iato fra le tutele del lavoro autonomo e dintorni e quelle del lavoro subordinato. Dentro quei diritti c’è anche un corrispettivo adeguato che è individuabile in molti modi e che potrebbe essere inquadrato in un range di costo orario legale, che va da un minimo a un massimo, lasciando il resto alla contrattazione individuale e, se c’è, a quella collettiva.
Che quindi non sarebbe la strada maestra.
Di strade se ne possono provare e trovare diverse ma la contrattazione collettiva in questo caso è difficile. Per i nostri sindacati, la cui stella polare sono i pensionati e i dipendenti, è difficile strutturare un’offerta, anche in termini di costo d’adesione, per lavoratori che hanno lavori saltuari, che durano mediamente qualche settimana o qualche mese, soggetti a una rotazione incredibile, per la stragrande maggioranza stranieri e irregolari. La loro riconduzione a categorie storiche che sono antitetiche a questo modo di lavorare è difficilissima e quindi anche la tutela collettiva è molto complicata nel nostro sistema sindacale. Il quale, tra l’altro, è straordinariamente complesso. È diviso per ambiti di contrattazione, poi per livelli territoriali, cioè provinciale, regionale e nazionale. La stessa divisione poi si ripete a livello confederale. Un sindacato dei rider, dove lo mettiamo? Dentro quale ambito? E poi nemmeno le piattaforme appartengono a un’organizzazione datoriale: non sono in Confindustria ma nemmeno in Confcommercio. In sostanza, è difficile far rientrare qualcosa che è nato fuori dal sistema di relazione sindacale all’interno di quest’ultimo. Non abbiamo i contenitori per contenerlo. Però, con un po’ di cervello e senza ideologia, delle soluzioni si possono trovare.
*Intervista pubblicata su Business People, maggio 2020