Dante, il signor del sommo canto

Così Ugo Foscolo definiva Alighieri, padre della lingua italiana, nato 750 anni fa a Firenze. Le esperienze della sua vita confluirono, insieme ai suoi studi, in un capolavoro - la Divina Commedia - ancora oggi uno dei testi più letti e tradotti al mondo

Una mente eletta e straordinaria. Un predestinato, in grado di elaborare visioni profetiche, investito dalla Divina Provvidenza di importanti missioni: dalla sublimazione in poesia di un amore platonico e impossibile alla difesa militare della propria patria fino all’esperienza dolorosa e disonorevole dell’esilio. Al di là dell’immagine che è giunta a noi, era questa la concezione che di sé aveva lo stesso Dante, come emerge dai riferimenti autobiografici dei suoi scritti. Illustre letterato, fine pensatore, profondo credente capace di giungere a una sintesi armoniosa tra Fede e Ragione.

Perfettamente calato nella dimensione sociale e culturale della sua epoca, il Medioevo, ma già precursore di una nuova sensibilità umanistica, propria del Rinascimento. E, soprattutto, considerato, anche a livello internazionale, il “Padre della lingua italiana”: studiosi e accademici hanno calcolato che il 90% del lessico fondamentale della nostra lingua oggi in uso – il quarto idioma più studiato al mondo, parlato da 200 milioni di persone – era già presente nella Commedia, il suo capolavoro, l’opera più tradotta e ristampata a livello globale dopo la Bibbia.

Nella Firenze medioevale

Selve oscure e limbi in ufficio

A distanza di 750 anni dalla sua nascita, la figura del sommo poeta risulta ancora molto attuale, ed è stata omaggiata costantemente da rassegne, mostre, letture recitate da parte d’interpreti di prim’ordine quali Vittorio Gassman, Vittorio Sermonti e, in tempi più recenti, il premio Oscar Roberto Benigni. «O gloriose stelle, o lume pregno/di gran virtù, dal quale io riconosco/tutto, qual che si sia, il mio ingegno,/con voi nasceva e s’ascondeva vosco/quelli ch’è padre d’ogni mortal vita,/quand’io sentì di prima l’aer tosco» (Paradiso, Canto XXII, vv. 112-117).

È Firenze a dare i natali a Durante degli Alighieri, detto Dante, in un giorno tra il 14 maggio e il 13 giugno 1265, sotto la costellazione dei Gemelli dalla quale – secondo le credenze astrologiche dell’epoca – è stato dotato di elevato intelletto.

Il padre Alighiero è un benestante proprietario terriero, sensale e cambiavalute; la madre è Bella (forse del casato Abati), e muore durante l’infanzia del figlio. Boccaccio racconta che, prima di partorire, fece un sogno propizio, visualizzando un albero di alloro a cui il suo piccolo tendeva la mano e di cui mangiava qualche bacca, trasformandosi poi in pavone.

Sempre nel Paradiso (Canto XV) Dante parla delle proprie, presunte, origini nobili, dando rilievo alla figura leggendaria del trisavolo Cacciaguida, che sarebbe stato cavalier armato sotto l’imperatore Corrado III, scomparso durante una spedizione contro gli “infedeli”.

La sua formazione primaria avviene presso una scuola francescana, cui seguono lezioni di retorica con il maestro Brunetto Latini e studi di diritto, filosofia e forse medicina all’Università di Bologna.

L’INCONTRO CON BEATRICE AVVIENE

NEL 1274 MA IL POETA E’ GIA’ PROMESSO

A GEMMA DONATI DALL’ETA’ DI 12 ANNI

Come da usanza di quei tempi, ad appena 12 anni è destinato al matrimonio con Gemma di Manetto Donati, che sposa nel 1277; nel frattempo, tre anni prima, ha incontrato colei che diventa sua musa ispiratrice, simbolo d’amore sublime: Beatrice, ossia Bice di Folco Portinari, poi moglie di Simone de Bardi. In accordo con gli ideali del Dolce Stil Novo, la bellezza pura della donna angelicata, «tanto gentile e tanto onesta», è un’emanazione diretta della luce divina.

A lei dedica le liriche della Vita Nova, composte presumibilmente tra il 1292 e il 1293. La stesura dell’opera, in parallelo alle letture di testi latini quali il De Consolatione filosofica di Boezio e il De amicitia di Cicerone, costituiscono un ideale rifugio consolatorio per il cantore fiorentino, dopo la prematura scomparsa di Beatrice, nel 1290.

Dante raggiunge l’età adulta in un contesto molto importante per il comune di Firenze, nel pieno della sua espansione economica e mercantile in Italia e in Europa, in un clima di notevole fermento anche dal punto di vista politico. Nel 1289, infatti, ha luogo la battaglia di Campaldino, dove il letterato combatte contro la ghibellina e filoimperiale Arezzo. Quando, nel 1295, viene disposto che per accedere alle cariche politiche occorre iscriversi alle corporazioni, sceglie quella dei Medici e degli Speziali, e si schiera con i guelfi di parte bianca, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, meno facinorosi rispetto ai neri guidati da Corso Donati.

Durante la sua carriera politica, ricostruibile attraverso alcune fonti dell’epoca, fa parte del Consiglio del popolo, del Gruppo dei Savi e del Consiglio dei Cento. Nel 1300 è nominato priore; in questa veste, deve disporre un doloroso provvedimento, l’esilio dell’amico poeta Guido Cavalcanti, responsabile di alcuni disordini. Un episodio, quest’ultimo, molto grave, che, accanto all’ostilità dei suoi nemici, suscita diffidenza anche tra i suoi stessi alleati, accelerando così il declino del suo percorso nella res publica fiorentina.

Nel 1301 viene inviato a Roma da Papa Bonifacio VIII, il quale, però, ha mandato a sua volta, a Firenze, Carlo di Valois: il fratello del re di Francia Filippo IV il Bello, aiutato da un manipolo di neri, mette a ferro e fuoco la città toscana, facendola capitolare. Con due provvedimenti successivi, Dante viene condannato in contumacia all’esilio perpetuo, e al rogo nel caso venga catturato. Non rivedrà mai più la sua amata Firenze. Inizia per lui un lento e doloroso calvario scandito da più tappe.

«Tu lascerai ogne cosa diletta/più caramente; e questo è quello strale/che l’arco de lo essilio pria saetta./Tu proverai sì come sa di sale/lo pane altrui, e come è duro calle/lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale…» (Paradiso, Canto XVII, vv 55-60). Il primo rifugio sembra essere, a Forlì, la casa di Scarpetta Ordelaffi; in seguito il poeta si sposta a Verona presso Bartolomeo della Scala e, intorno al 1306, è accolto dai Malaspina in Lunigiana.

La vita di corte certo non lo soddisfa, ma gli permette di sopravvivere. Così, mentre sogna ancora di poter rientrare in Toscana, si dedica alla stesura del trattato De vulgari eloquentia (1303-1305 ca), e dei saggi Convivio (1304-1307) e Monarchia (le date sono incerte: 1308, 1311-13 o dopo il 1318).

La lontananza dai pubblici uffici, ma soprattutto le riflessioni religiose, morali e politiche che matura in questo periodo, gli permettono di scrivere la sua opera più importante (probabilmente tra il 1304 e il 1321), la Commedia – l’aggettivo Divina fu attribuito per la prima volta da Boccaccio – poema didattico-allegorico in cui Dante immagina di intraprendere un viaggio attraverso i tre regni dell’Oltretomba: dallo smarrimento nella selva oscura e la discesa ai gironi infernali alla montagna del Purgatorio, in entrambi i casi guidato da Virgilio, simbolo della ragione e della saggezza antica, fino all’ascesa ai nove cieli del Paradiso, mondo immateriale ed etereo, dove è accompagnato invece da Beatrice, raffigurante la Grazia. Quest’ultima Cantica viene dedicata a Cangrande della Scala, il signore di Verona che ospita il poeta e i suoi figli nel 1312.

IN ESILIO COMPONE LE TRE CANTICHE

FACENDOVI CONFLUIRE RIFLESSIONI

DI TIPO RELIGIOSO E FILOSOFICO

Tra il 1318 e il 1320, invece, «il ghibellin fuggiasco» – secondo la definizione, celebre e impropria, di Foscolo – si stabilisce in Romagna presso Guido Novella da Polenta, per conto del quale intraprende una missione di ambasceria a Venezia. Sulla via del ritorno contrae le febbri malariche; muore il 14 settembre 1321 e viene sepolto a Ravenna.

Nelle sue principali opere, Dante ha voluto celebrare il potere salvifico di «virtute e canoscenza», importanti per nobilitare l’animo umano e renderci più vicini a Dio: quel misericordioso «Amor che move il sole e l’altre stelle» che presumibilmente è stato il suo unico, vero conforto negli ultimi, difficili, momenti in cui vagava senza meta, povero e ramingo, lontano dagli affetti, dalla sua terra e dalle glorie passate.

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