Conflitti mondiali, costi delle materie prime in salita, politiche protezionistiche sempre più severe e diffuse. Il clima di grande insicurezza (e fragilità nonché aggressività) internazionale che stiamo vivendo è una condizione che inevitabilmente si ripercuote su gran parte delle aziende italiane e dei loro manager, a prescindere dai settori in cui operano e dalla loro dimensione. Il dilemma che molti si pongono anche a livello politico è: agire o reagire? Ovvero, muoversi per occupare comunque degli spazi nei mercati dove già si opera, individuando degli spiragli in cui “intrufolarsi” a dispetto di tutto, oppure chiudere definitivamente alcuni fronti per cercarne altri completamente diversi.
Si tratta di ricominciare da dove si era rimasti o di cominciare daccapo altrove. Cosa fare per migliorare la tenuta del proprio business? Per i manager quali sono le skill più richieste adatte a navigare su questo mare di turbolenze? Di certo non esiste una sola soluzione valida per tutti le situazioni, ne abbiamo parlato con quattro interlocutori d’elezione:
- Francesco Passarelli – Università degli studi di Torino
- Antonio Cellie – Fiere di Parma
- Massimo Rosa – Head Hunter
- Carlos Manuel Soave – Hays Italia
La conoscenza è un’arma fondamentale
Francesco Passarelli – Professore ordinario di Economia politica all’Università degli Studi di Torino
In questa fase i rischi che le aziende si trovano ad affrontare si presentano in modo inedito. Per esempio, guardando alla gestione finanziaria, il clima generalizzato di incertezza riduce la disponibilità di risorse e ne aumenta il costo. In questo senso, una prima risposta è aumentare la capitalizzazione, per resistere meglio alle crisi di liquidità. Poi occorre diversificare le fonti di finanziamento e la loro maturità. Così si riduce l’impatto di variazioni dei tassi di interesse e delle politiche monetarie.
Sul fronte della gestione produttiva, invece, i rischi sono legati all’approvvigionamento dei materiali, al lavoro e ai mercati di sbocco. Qui, la prima mossa da fare è creare un piano di gestione del rischio. Si parte dall’analisi dello scenario peggiore, per capire quali sono le criticità e come porvi rimedio. Una specie di stress test. È, inoltre, fondamentale analizzare i mercati, sia quelli di approvvigionamento che quelli di sbocco, e anticipare i cambiamenti, anche quelli geo-politici o regolatori. Da questo punto di vista è buona norma identificare dei mercati alternativi, sia per gli approvvigionamenti che per le vendite.
Anche i processi produttivi dovrebbero essere pensati affinché si possano adattare a cambiamenti repentini. Alcune fasi non cruciali della catena produttiva possono essere, per esempio, affidate a terzi, mentre per gli approvvigionamenti si possono rafforzare i vincoli contrattuali – in modo da legare più strettamente i fornitori o i clienti – e aumentare le inventories, cioè il magazzino, sia di materie prime, che di prodotti intermedi. Inoltre, soprattutto quando si esplorano nuovi mercati, è preferibile privilegiare fornitori più affidabili, anche se più costosi.
In un mondo più turbolento le imprese fanno friendshoring, cioè spostano gli approvvigionamenti (o anche la produzione estera) da Paesi geopoliticamente ostili e inaffidabili verso altri più affidabili e amici. Fino a poco tempo fa, la strategia suggeriva di lasciare la Cina e rivolgersi agli Usa. Adesso anche gli Usa appaiono minacciosi, forse ancor più di Pechino, così l’area a minor rischio è divenuta l’Unione Europea, benché i costi di produzione siano più alti.
Aggiungerei poi che una multinazionale che fraziona la produzione in vari Paesi del mondo dovrebbe accorciare la catena produttiva. Per limitare il rischio che la “catena globale del valore” si spezzi è bene ridurre il numero degli anelli. Vorrei però sottolineare che l’incertezza crea anche delle opportunità. Se, per esempio, Cina e Usa intraprendono una guerra commerciale, il prezzo delle importazioni di beni cinesi/americani si ridurrà, e questo andrà a beneficio degli altri Paesi, come quelli europei.
Ultimo, ma non meno importante, quando aumenta l’incertezza globale, un manager dovrebbe investire di più nella conoscenza, anche degli scenari geopolitici. Pochi si rendono conto di quanto le politiche commerciali e monetarie dell’Unione Europea diano stabilità, ma ignorare questi temi può essere costoso e pericoloso. La conoscenza è un’arma strategica fondamentale.
Il management può fare la differenza
Antonio Cellie – A.d. di Fiere di Parma, tutor del Master ‘Internazionalizzazione del Made in Italy’ dell’Università Cattolica di Milano
Partiamo dal presupposto che anni di frequentazioni del Food & Beverage mi suggeriscono una visione serena del futuro che ci aspetta. L’aspetto positivo dei dazi imposti dagli Usa è che per l’Italia, Paese storicamente grande trasformatore di materie prime, si renderanno disponibili nuovi fornitori, dal Messico al Sudamerica. Se questi Paesi incontreranno difficoltà nell’esportare negli Usa, potremo subentrare noi. E ben sappiamo come il vero problema del futuro sia la scarsità di materie prime, con conseguente rialzo dei prezzi.
L’Europa resta il nostro mercato più importante. In Asia, abbiamo praterie di sviluppo. Negli Usa, Paese che rappresenta il 20% del nostro export agroalimentare, il nostro target di riferimento resta alto spendente. Ciò significa che, per esempio, i vini italiani, pur oberati dai dazi, costeranno comunque meno dei vini premium americani che, per quanto migliorati, non sono ancora al nostro livello. Come il management può fare la differenza in questi tempi incerti? Continuando a fare ciò che sa: navigare a vista, essere flessibili, puntare su politiche di short term. Non a caso, le imprese italiane durante la pandemia sono cresciute: si è lavorato, e tanto, anche indossando le mascherine.
Vietato farsi bloccare dalla paura. Anche durante la prima presidenza Trump c’era il timore dei dazi, che poi hanno avuto un impatto minore rispetto a quello temuto. Una strategia interessante in mercati difficili è quella di distribuire o produrre direttamente in loco, magari comprando player locali. Lo hanno già fatto con successo imprese grandi e meno grandi, come Ferrero, Barilla, Perfetti, Rana, Auricchio, Citterio, Levoni, Parmacotto…
Del resto, siamo in un momento felice: in molte aziende stiamo assistendo a un virtuoso cambio generazionale. Ai vertici ci sono oggi spesso donne e uomini quarantenni, molto formati, che conoscono le lingue e hanno lavorato all’estero. Non solo, hanno fatto esperienza di contrattazione sui margini con la Gdo europea, che è la più aggressiva di tutte. Questo permette loro di avere ottime capacità negoziali all’estero e anche in Usa.
Ma la differenza, nel comparto, la fa la conoscenza della filiera: dal campo alla tavola, dal produttore al consumatore finale. La vera leadership si manifesta nella capacità di gestire la catena del valore. Bisogna tenere i piedi ben piantati nella filiera, per avere lo sguardo rivolto all’estero e al futuro. E questo le imprese familiari del Food & Beverage italiano lo sanno fare meglio di chiunque altro al mondo. La risposta a questa egoistica virata all’insegna del protezionismo consiste nel fare squadra: tra aziende, Paesi, comparti. Unire il settore agricolo e quello industriale in un’unica battaglia condivisa. L’edizione 2025 di Tuttofood, a maggio a Milano, è l’emblema di questa forza tranquilla, che rappresenta il settore agroalimentare, in grado di muovere il Pil dei Paesi, fare cultura, nutrire le relazioni sociali. Non a caso gli affari si fanno, e continueranno a farsi, a tavola.
Adattabilità e apertura al nuovo contano più dei titoli
Massimo Rosa – Head hunter
Le aziende italiane stanno affrontando l’incertezza con un approccio sempre più strategico e flessibile. Da un lato, investono nella digitalizzazione, nell’AI e nell’automazione per ottimizzare i processi e ridurre i costi. Dall’altro, adottano modelli organizzativi più agili, rivedono le loro supply chain e puntano su forme di lavoro ibride. La capacità di rispondere rapidamente ai cambiamenti è diventata essenziale, così come la predisposizione all’innovazione.
Per questa ragione si cercano professionisti con un forte orientamento al problem solving, capacità di pensiero critico e una spiccata attitudine alla gestione dell’incertezza. Resilienza, adattabilità e leadership trasformativa sono qualità imprescindibili, così come un mindset digitale e un approccio orientato ai dati, anche per chi non opera in ambito tecnologico.
Inoltre, sempre più valore viene dato alle soft skill, in particolare alla capacità di guidare team eterogenei, gestire il cambiamento e costruire relazioni solide in un ambiente lavorativo che, tra smart working e internazionalizzazione, è sempre più fluido.
Quindi, se una volta l’attenzione era focalizzata sull’ottimizzazione dei costi e sull’efficienza, oggi le aziende mirano a leader capaci di navigare scenari complessi e di prendere decisioni rapide basate sui dati. Per esempio, tra i profili più ricercati troviamo figure in grado di guidare la trasformazione, come Chief Transformation Officer, Chief Risk Officer o esperti di sostenibilità e governance. L’età dei candidati non è più una discriminante: fa la differenza la mentalità con cui si affrontano i cambiamenti. Le imprese cercano un equilibrio tra l’esperienza e la visione strategica dei profili più senior e la freschezza e l’agilità dei giovani talenti. Conta meno il numero di anni di carriera e molto di più la capacità di apprendere velocemente, innovare e adattarsi alle nuove dinamiche.
E infatti, per valutare la leadership e l’adattabilità dei candidati, le aziende non si limitano più a considerare il cv, ma osservano il modo in cui hanno gestito il cambiamento nelle esperienze precedenti, il loro approccio ai problemi complessi e la capacità di influenzare gli stakeholder. Gli assessment comportamentali, i case study e il track record di risultati ottenuti in momenti di crisi sono strumenti sempre più utilizzati nei processi di selezione, così come l’analisi delle interazioni professionali sui social e la partecipazione a iniziative di settore. Un consiglio per i manager? Investire nella formazione, costruire una rete di relazioni di valore, rafforzare il proprio personal brand e mantenere una mentalità aperta al cambiamento, perché la capacità di avere una visione strategica e di anticipare i mutamenti è ciò che distingue un buon manager da un vero leader. Le imprese lo valutano non solo attraverso le competenze tecniche, ma anche dalla capacità di costruire scenari futuri, di prendere decisioni basate su insight e di guidare il cambiamento con coraggio e lucidità. Oggi non basta più essere reattivi, bisogna saper vedere oltre.
I driver del momento: flessibilità e formazione
Carlos Manuel Soave – Managing Director di Hays Italia
Le aziende, soprattutto le multinazionali, stanno rivedendo strutture e modelli organizzativi, per avere processi più snelli e reagire in tempi più brevi. In alcuni ambiti come l’IT, esploso durante il Covid, c’è un ripensamento delle figure, che in certi casi diventano collaboratori esterni e restano solo la durata di singoli progetti. In generale, le imprese richiedono quindi maggiore elasticità, non a caso a livello europeo c’è una crescita di freelance.
Spicca poi l’uso di sistemi flessibili, come lo smart working e, molto importante, la centralità della formazione continua. Il mercato cambia così velocemente, che aggiornarsi è diventato un must. La verità, però, è che i denominatori comuni sono quelli di sempre. Da un lato, in determinati settori come quello Stem, il mercato chiede competenze tecniche molto puntuali e verticali. Ma dall’altro, essendo l’azienda fatta anche di competenze trasversali, la selezione riguarda figure con capacità di adattamento, leadership, pensiero strategico…
A fare la differenza, quindi, oltre che l’ambito, è il livello di seniority della risorsa. All’inizio la formazione è più tecnica, ma più si cresce e più acquistano rilevanza le competenze trasversali. L’esperienza, che non necessariamente coincide con l’età, è un aiuto. Se un manager ha già risolto brillantemente crisi legate alle turbolenze di mercato, è più probabile che abbia maturato le conoscenze per farlo di nuovo. Del resto, l’andamento dei mercati è ciclico e le incertezze tendono a manifestarsi periodicamente. In alcune industry meno consolidate dove c’è un fortissimo sviluppo, tipo l’ambito relativo all’intelligenza artificiale, si cercano anche figure con meno maturità, purché abbiano una visione strategica chiara, doti di leadership e la capacità di guidare le persone in un momento di cambiamento.
In ogni caso, in fase di selezione si analizzano le referenze, si valuta come i manager hanno gestito i cambiamenti in passato, come sono usciti da situazioni di complessità. E poi i risultati ottenuti. Ai dirigenti di oggi, in particolare la fascia 45- 60 anni, consigliamo di investire sulla rete di contatti professionali, il network, le relazioni. E di non farlo solo quando si vuole, o si deve, cambiare lavoro, ma in anticipo, anche solo per scambiare idee e spunti per crescere.
Occorre poi studiare e aggiornarsi, investire nella propria formazione, e questa è soprattutto una responsabilità personale: occorre sollecitare le aziende, che non sempre ti prendono per mano in questo percorso. Infine, concluderei con un messaggio positivo: l’AI da un lato andrà a trasformare dei compiti, mettendo a rischio alcuni lavori, ma andrà anche a creare nuove professionalità. Anche la convivenza di più generazioni in azienda non deve essere vista come una minaccia, anzi: lo scambio di competenze ed esperienze è sempre positivo, perciò le aziende che trovano un giusto equilibrio e team multigenerazionali, alla fine, ne traggono un notevole vantaggio.
Articolo pubblicato suBusiness People di maggio 2025, scarica il numero o abbonati qui
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