Leadership femminile: se chiediamo ai sondaggi a che punto siamo, la strada sembra lunga e tortuosa; se lo chiediamo a chi la vive e traduce ogni giorno, la prospettiva cambia. Era il 1995 quando Daniel Goleman iniziò a studiare e a scrivere di intelligenza emotiva fino a pubblicare, vent’anni dopo, nel 2015, un caposaldo come Leadership emotiva, una nuova intelligenza per guidarci oltre la crisi. In Italia riempiamo ancora documenti, palcoscenici, consigli di amministrazione, tavoli di lavoro e bollini certificati per dimostrare quanto le imprese tengano alla questione femminile; altrove il dibattito è già da tempo sostanza. Ne abbiamo parlato con Cristina Mele, Elisabetta Zanarini e Debora Fino: tre donne, tre geografie, tre stili manageriali.
Il leader non è un eroe

Cristina Mele
Cristina Mele, professoressa ordinaria di Economia e gestione delle imprese e Service Innovation alla Federico II di Napoli, insegna da trent’anni. Essere anche Visiting Professor in Svezia significa misurarsi col mondo e le sue logiche, anche coi suoi modelli culturali e organizzativi di leadership, così come essere docente alla Sna significa rimodulare un senso nuovo di leadership e managerialità dentro contesti pubblici ancora troppo stantii. Innovazione è la parola d’ordine di una donna che, dopo una lunghissima eredità al maschile, riveste il ruolo di professore ordinario nella sua disciplina. «Il mio intento, da anni, è sfruttare la trasformazione digitale in una prospettiva molto critica, non ci serve a nulla dividerci tra tecno-ottimisti o pessimisti, quello che conta è tradurla non solo per le imprese, ma anche per consumatori e cittadini. A me interessa il suo valore d’uso, dove per valore intendo sì la parte economica, ma tanto di più quella sociale e relazionale».
Il contesto di lavoro in cui si muove nel quotidiano è per lo più al femminile. Gli ultimi progetti in cui esprime il proprio concetto di leadership guardano agli anziani e ai bambini, oltre al fatto che è la referente dell’università per Age-it, progetto europeo finanziato con i fondi del Pnrr. «Lavoro per una robotica che possa supportarci nelle nostre carenze o lacune, farci vivere le difficoltà con minor peso, dai malati di Alzheimer ai più piccoli come supporto nell’apprendimento». Un’esperta di tecnologia dal punto di vista manageriale, questo è la nostra interlocutrice.
Si misura con grandi contesti, nazionali ed esteri, ma ama il piccolo: cooperative, residenze per anziani, B-Corp. «La mia idea di leadership femminile è un’idea ampia che promuove visioni organizzative in chiave di comunità: non di famiglia, ma di comunità. Ciò su cui invece sono critica è il modello italiano di impresa dove chi sta a capo respira ancora una certa aria da eroe. Questa visione deve essere superata perché, anche quando abbiamo grandi idee, senza gli altri non andiamo da nessuna parte. Lavoriamo tutti con, per. In questo le donne sono avvantaggiate, perché di natura guardano fuori di sé e nelle imprese lo traducono in un diverso concetto di inclusione sociale, anche di interpretazione e gestione del rischio».
Ribadisce che non siamo tutti uguali, nemmeno le donne sono tutte uguali, ma che dovremmo avere tutti le stesse opportunità. «In Italia purtroppo c’è poco riconoscimento del merito e delle competenze e anche questo penalizza una fisionomia di leadership, maschile o femminile». Quando il discorso si sposta su un piano più organizzativo e aziendale, arriva un’illuminazione. «Le donne sono più favorevoli alla delega, non le spaventa, anche in ambiente universitario. Delegare non vuol dire solo che decidi tu, ma che ti riconosco valore e competenza». All’estero cambia molto, per non dire tutto: c’è meno smania di parità, perché già acquisita, e meno bramosia di realizzarsi solo nel lavoro. «Meno smania, è vero, ma soprattutto un altro stile di vita, un altro equilibrio privato e professionale. E lì vale per tutti, quindi vuol dire che i contesti sono più evoluti e ne beneficiano senz’altro i giovani, attratti da un modello in cui si riconoscono».
Qualcosa è cambiato

Elisabetta Zanarini
Elisabetta Zanarini, Hr Senior Consultant, da una vita in Fondazione Aldini Valeriani, la scuola di Industrial management di Confindustria a Bologna. La lunga esperienza in campo manageriale si deduce anche dalla memoria che offre: «Vent’anni fa, forse anche meno, parlavamo di pari opportunità e di conciliazione vita-lavoro, quest’ultima poi diventata work life balance che dissociamo ormai, giustamente, da questioni di genere». Viene naturale chiedere come si generi un diverso passaggio culturale in ambito manageriale, se sia possibile insegnarlo o solo trasferirlo per contaminazione. «Di leadership al femminile si è parlato tanto fino a circa dieci anni fa: probabilmente è stato utile, ragionando di attitudini e capacità di genere, per smontare stereotipi e pregiudizi o semplici abitudini organizzative che associavano ai ruoli manageriali un profilo maschile. Poi io, come altri colleghi, abbiamo iniziato ad affiancare al concetto di parità di genere i temi della complementarietà e della biodiversità: c’è poco da fare, uomini e donne sono differenti, anche in termini fisici, ormonali, chimici, oltre che chiamati a vivere fasi di vita non sempre comparabili. Una su tutte: maternità e paternità sono esperienze sempre distintive e differenti, oltre che vissute sempre più spesso in età diverse».
L’Emilia, terra di indubbia vocazione industriale, testimonia anche un’aderenza tra imprese e geografie del lavoro, chissà se fino al punto di lasciar immaginare che il dove influenzi il come di una leadership femminile. «Non credo sia una questione geografica, è più un tema di culture organizzative. La posizione delle donne è spesso il frutto di avvicendamenti fisiologici, solitamente la figlia di un imprenditore o storie simili, dove la donna emana da modelli o stili intorno a cui è cresciuta, e non è mai semplice rimettere a terra una propria cifra distintiva. Con la differenza che quel padre viene ancora chiamato e riconosciuto col titolo di dottore o ingegnere o per cognome, mentre la donna è sempre e solo un nome. A meno che lo sdoganamento dei formalismi anche linguistici che sta arrivando dai più giovani finisca per indurre a chiamarsi per nome piuttosto che per titolo, vedremo. Però ormai posso testimoniare che il passo è cambiato quanto a numeri; lo vedo dal fatto che ormai è molto comune trovare donne in posizioni di staff, come Hr o Cfo, e via via negli anni lo è stato anche in ruoli più tecnici e operativi».
Ci deve essere, o va trovata, una via comune a cui guardare. «Negli ultimi anni, nelle aule di formazione manageriale e non, nei percorsi di sviluppo organizzativo e di coaching, la leadership al femminile ha lasciato spazio ad almeno tre nuove prospettive: il cross cultural management, perché bastano poche ore di aereo di distanza per non trovare le stesse modalità di comunicare, guidare i team, gestire situazioni, cambiamenti e business; il talent management, che in Italia con poca lungimiranza dedichiamo solo ai giovani talenti, mentre nelle nostre aziende tante e varie sono le grandi risorse di tutte le età; le competenze maturate nell’esperienza genitoriale: fino a qualche anno fa si parlava di maternity coaching da dedicare alle donne al rientro al lavoro, oggi abbiamo percorsi di coaching per neo genitori, in cui si scoprono e valorizzano competenze differenti potenziate dall’essere madre e padre». Mi chiede un ultimo spazio, la chiusura. «La frontiera sarà dare valore alle competenze dell’essere caregiver: anche se le attività di cura sono tuttora troppo femminili, molto sta cambiando nell’organizzazione del lavoro non retribuito in famiglia e nel volontariato. Anche qui si può potenziare quanto riconoscimento di umanità e di ascolto che abbiamo bisogno di trovare in ogni ruolo e genere di leadership».
Parola d’ordine: comunicazione

Debora Fino (© Roberta Melchiorre)
Debora Fino, direttrice al Politecnico di Torino, è a capo del dipartimento più grande tra gli undici dell’ateneo. Coordina 280 persone strutturate, più dottorandi, assegnisti di ricerca e personale di varia natura: totale più di 600 risorse, che vuol dire gestire i numeri di un’impresa tutt’altro che piccola. Fino racconta i tanti dipartimenti del Politecnico senza usare la parola competizione, parla piuttosto di «confini su cui si gioca l’aspetto più delicato, che è quello della collaborazione». La sua managerialità al femminile poggia solida su una parola: comunicazione.
«Attraverso la comunicazione diventiamo persone leali. Motivo per cui, appena insediata, ho introdotto il caffè con la direttrice, ogni settimana sono più di due ore destinate interamente al dialogo col mio dipartimento, il caffè dura dieci-quindici minuti e può prenotarsi chiunque abbia necessità di parlare con me. Incontro in media 12 persone ogni settimana, una a una, oltre ai momenti ordinari di lavoro. Certo in dieci minuti non si risolve nulla, ma si crea un clima informale che apre al confronto. Credo sia utile anche per far conoscere la propria leadership: dovremmo ricordarci che chi lavora con noi necessita di tempo e informazioni per assimilare i passaggi e i cambiamenti di stile. Con numeri così grandi il mio timore è lasciare indietro le persone, in questo modo invece riesco a contenere il rischio».
Management vuol dire anche occuparsi di micro-problemi, piccole condizioni che bisognerebbe evitare diventino grandi complessità. Al Politecnico lei ci riesce anche col dialogo e con un insolito senso del tempo rispetto alla frenesia contemporanea. Lo dimostra la prassi che ha introdotto sui tempi di delibera: dopo aver dato le linee e spiegato la questione all’ordine del giorno, col suo staff lascia passare un mese prima di ufficializzare le decisioni, così che ci sia modo per tutti di rifletterci su, confrontarsi, semmai controproporre. Una leadership femminile che rinnova anche il senso di sicurezza: «Qui abbiamo 92 laboratori che, per essere adoperati in sicurezza dal personale, richiedono una manutenzione capillare e scrupolosa, cioè costosa. Ho quindi chiesto di incrementare le mie ritenute dipartimentali dai progetti che i collaboratori portano a casa passando per finanziamenti o imprese che assegnano loro progetti. Ho avuto bisogno di chiedere, ma prima l’ho spiegato e ho fatto comprendere che non si trattava di un sacrificio vano, ma di una via che permettesse anche a loro di lavorare in condizioni di sicurezza totale costante».
Quello di leadership è sempre un concetto collettivo «Mi è capitato spesso in passato di lavorare e muovermi in contesti che parlavano di inclusione femminile, ma poi non lo facevano. Per questo, qui mi muovo senza dimenticare che prima sono stata una docente ordinaria come i miei colleghi, forse anche per questo ho scelto di non rinunciare alla docenza anche se avrei potuto». I più giovani come si rapportano a lei e alla sua leadership femminile, è la risposta alla domanda che da adulti dovremmo porci più spesso: siamo un punto di riferimento per loro? «Vedo questa giovane generazione molto concentrata sulle sue sfide personali e vorrei riuscire a dire loro che, anche quando si parla di leadership, è sempre un concetto collettivo. Provo a ispirare uno stile che faccia emergere in loro un leader naturale, uomo o donna che sia, capace di portare tutti insieme verso un lungo viaggio. Ci si riesce solo partendo ognuno da dentro. Non so se esista il termine, ma mi viene da dire che serve prima una leadership interiore».
Questo articolo è tratto da Leadership. Il femminile al plurale, inserto di Business People di luglio-agosto 2024. Scarica il numero o abbonati qui
© Riproduzione riservata