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Intervista a Oscar Farinetti: edificare il futuro sul passato

Cambiare pelle lasciandosi guidare dall’evoluzione del gusto dei consumatori, mantenendosi però fedeli ai valori dai quali si è partiti. Anche questo per il patron di Eataly significa vivere e lavorare bene con amore per i cibi e le bevande artigianali, così come per le storie, le tradizioni e i luoghi di chi li produce

“Mangiare italiano, vivere italiano”. Prodotti di alta qualità, facilmente reperibili e a prezzi sostenibili, a disposizione di tutti: con questa premessa, nel 2007, nasceva Eataly, con l’obiettivo di aprire una nuova via, nel mondo, alla distribuzione alimentare e alla commercializzazione di cibi e bevande artigianali. Oggi la catena ideata e fondata da Oscar Farinetti è un colosso dell’eccellenza enogastronomica tricolore in continua crescita – nel 2015 il fatturato è incrementato del 28%, con ricavi superiori ai 400 milioni di euro – e conseguente espansione geografica globale. Entro fine anno, infatti, «sono previste altre aperture: la seconda a New York (a Ground Zero), subito dopo a Boston e a Los Angeles. In Europa a Copenaghen e poi Mosca. Negli Emirati Arabi, visto l’enorme successo di Dubai apriremo anche nel Bahrain, a Doha e Riyadh», dichiara l’imprenditore di Alba a Business People.

PER CREARE UN’AZIENDA DI SUCCESSO

BISOGNA AVERE VISIONE PROGETTUALE,

DARE ESPERIENZE RILEVANTI AI CLIENTI

E PROPORRE SEMPRE NOVITÀ

La chiave del successo? Eataly continua a innovarsi, senza però snaturare i suoi principi fondanti che, come spiega il suo patron, sono sempre gli stessi di nove anni fa: l’importanza delle materie prime di pregio, il legame con il territorio di appartenenza – le sue storie, le sue tradizioni, le sue genti – la passione per il buono e il bello, «il gusto della convivialità che nasce intorno a una tavola imbandita e che aiuta a trovare momenti di vera felicità». Perché, se questa esiste, seppur per brevi attimi, sottolinea Farinetti, non può che essere in relazione al prossimo e al creato: «La migliore benzina che ci fa muovere in armonia con tutto ciò che ci circonda è il rispetto». Il che implica, alle volte, fermarsi a riflettere, rielaborare i piani, compiere un passo indietro, se necessario, che permetta di lanciarsi di nuovo in avanti con rinnovato vigore. Come ha fatto, di recente, la stessa Eataly quando ha aderito alla campagna animalista #ViaDagliScaffali: in seguito alla diffusione di un video su maltrattamenti e alimentazione forzata a cui sono sottoposte le oche, la catena ha detto stop al foie gras, bloccando gli ordini in attesa di smaltire le ultime scorte in esaurimento. «In questa spaventosa, ma insieme meravigliosa imperfezione cosmica dentro la quale viviamo, abbiamo la facoltà di decidere qualcosa. Suggerisco di decidere di avere dubbi. Il dubbio ci aiuterà a trattare meglio chi mangiamo e chi abbracciamo», ha scritto, poco tempo fa, Farinetti sulle colonne del Corriere della Sera.

Nel lungo periodo d’analisi che ha preceduto la nascita di Eataly, dal 2004 al 2007, quali criticità ha notato relativamente alla ricerca della bontà e della qualità e come è intervenuto?La premessa è corretta: bisogna studiare molto. Qualsiasi progetto è fatto di due parti: l’analisi e la costruzione progettuale. Mai sbagliare la prima, altrimenti si fallisce. La difficoltà più grande – desterà stupore – è la narrazione. Sotto il profilo oggettivo, l’offerta della biodiversità italiana è stratosferica: non c’è altro Paese al mondo che offra le bellezze e la qualità che presenta il nostro Paese, grazie alla nostra posizione geografica e al clima favorevole, in primis. Quindi la sfida era, ed è ancora, raccontare questa enorme ricchezza delle nostre terre. E fino all’entrata in campo di Eataly, questa parte di storytelling legata alla meraviglia, stranamente, era stata poco sfruttata dagli italiani.

Qual è il segreto per creare qualcosa di buono che abbia successo?Immaginiamo il nostro progetto imprenditoriale come una pesca, fatta di tre parti: il nocciolo, la polpa, la pelle. Il primo è fondamentale: se marcisce, va a male tutto il resto. Quella è la visione progettuale, una fase in cui ha senso essere molto lenti nel formulare le fondamenta teoriche alla base della propria idea di business. Bisogna essere più veloci nell’addentare la polpa – fuor di metafora, regalare esperienze significative ai propri consumatori – e velocissimi nel cambiare pelle, cioè nella capacità di proporre continue novità innovando. Se potessimo viaggiare nel tempo e tornassimo indietro al 27 gennaio 2007, quando Eataly ha aperto i battenti al Lingotto, confrontando il contesto di allora con quello di oggi, vedremmo che i valori sono rimasti intatti, mentre a essere diverse, perché più attuali, in costante evoluzione, sono le offerte e le in-store experience.

Dati recenti denotano che l’esportazione dell’agroalimentare made in Italy è cresciuta del 7,3%, ma resta più bassa rispetto ad altri Paesi, come la Francia. Perché non riusciamo a vendere il concetto di qualità del vivere offerta dal made in Italy?Intanto, dobbiamo andare fieri e contenti di una simile percentuale, perché, a colpi di incrementi continui, stiamo certi che sorpasseremo i competitor. Certo, esportiamo meno di francesi, ma anche di tedeschi, olandesi… Il motivo è presto detto ed è di una semplicità cristallina: noi non abbiamo catene di retail all’estero. Auchan ha 1.450 supermercati in Cina e Carrefour 80 ipermercati: per i cinesi il vino è francese come la Coca-Cola è americana! Noi abbiamo i migliori retailer al mondo (Coop, Esselunga…), ma ci manca una forte distribuzione oltreconfine. Si stanno, però, scaldando i motori… Attualmente l’obiettivo dell’export agroalimentare è fissato a un giro d’affari di 50 miliardi entro il 2020: a mio avviso, lo raggiungeremo anche prima. E i 60 miliardi della Francia non sono poi così lontani. È un po’ quello che accade nel turismo: siamo il primo Paese al mondo per bellezze del patrimonio storico-culturale, con 50 siti Unesco. Eppure, non siamo quello più visitato. Roma conta 7,8 milioni di turisti, Dubai 15. Recupereremo. Ma per raddoppiare i numeri – nell’agroalimentare così come nel turismo – dobbiamo crederci! “Connecting Minds, Creating the Future”, hanno pensato e messo in pratica gli arabi quando si sono trovati senza più petrolio da sfruttare, inventandosi nuovi business per attrarre capitali e per muovere volumi d’affari al loro interno. Noi, del resto, abbiamo già in casa modelli virtuosi a cui ispirarci: basta andare in quella striscia di terra tra Rimini e Riccione e osservare la straordinaria arte dell’accoglienza di quella gente, che non ha eguali.

Attraverso quali valori, luoghi, situazioni, interessi si delinea la qualità dell’esistenza?Per me il buon vivere è armonia. Ormai abbiamo capito che la felicità è un valore solo in interconnessione con gli altri, con il prossimo. A tutti i livelli, dalla vita privata al lavoro. Nel caso mio e della mia famiglia, come si può ben immaginare, quelle sfere si compenetrano, non hanno confini netti, ma sfumati. Tale confusione, però, per la mia esperienza personale, è feconda, è un caos creativo. Determina benessere. Il mio buen retiro? Le Langhe. Le radici incidono notevolmente. Ho sempre fatto un po’ di fatica nelle metropoli. Tra le aziende agricole di quei luoghi mi sembra di respirare e di stare meglio.

Ha dichiarato: «Sembra un paradosso, che in un Paese di tanta bellezza ci siamo così abituati a guardare al brutto fino a perdere le speranze. (…) Salveremo l’Italia (…) se torneremo a essere capaci di guardarla, capirla, gioirne, narrarla e, perché no?, venderla». Oltre che bellezza, quanta bontà – di cibo, di vita – continua a esserci nella biodiversità italiana? Secondo lei c’è maggiore consapevolezza, oggi, riguardo a questa ricchezza, sia da parte degli imprenditori che da parte dei consumatori?Assolutamente sì. Nella moderna società dei consumi siamo passati da una grande presa di coscienza, che è il valore del lavoro e del salario, fino alla degenerazione del consumismo. L’evoluzione umana non ha seguito un percorso rettilineo, ma fasi alterne, in una spirale però virtuosa: oggi, per esempio, c’è maggiore consapevolezza, nel mio settore, di quanto siano importanti i prodotti alimentari di qualità introdotti nel nostro corpo sotto forma di cibo rispetto ad altri beni esteriori, dai profumi all’abbigliamento fino agli accessori d’alta gamma e alla pelletteria. La grande crisi del 2008 ha prodotto difficoltà per questi mercati luxury. Eataly, invece, continua a crescere. Ci sono sempre più appassionati che preferiscono spendere in alta gastronomia piuttosto che in orologi. “Qualità” implica anche “zero spreco”. Viviamo in un mondo abitato da 7 miliardi e 300 milioni di persone, produciamo cibo per 12 miliardi, ma malgrado questo 826 milioni di individui soffrono la fame, un miliardo e mezzo sono obesi e due miliardi buttano via il cibo. Abbiamo bisogno di riequilibrare la distribuzione delle risorse alimentari. È una presa di coscienza che progressivamente sta migliorando. Poco umilmente, forse, ma credo che Eataly abbia dato un importante contributo a tutto questo scenario.

Un leader vive bene? Prima ancora: lei si sente tale?Abbastanza. Ma chi è in prima linea non è più importante dei suoi collaboratori. Il problema di noi italiani è che siamo figli di eroi solitari. Penso a Cristoforo Colombo o a Marco Polo. Uno a Ovest e uno a Est hanno conquistato il mondo. Ma il primo ha rischiato l’ammutinamento perché fino al giorno prima non voleva rivelare la rotta ai suoi uomini, il secondo, invece, non si decideva mai a scrivere Il Milione, malgrado continuassero a chiederglielo tutti. I leader sono fondamentali, ma non valgono più di seconde e terze file. Quando mi hanno offerto il Cavalierato del Lavoro, ho rifiutato. L’avrei accettato solo se fosse stato proposto a me così come a un operaio che ha lavorato giorno e notte per quarant’anni in fabbrica. Perché? Per me, noi “padroni” abbiamo il dovere di accendere la scintilla della creatività e dar vita alle imprese. Egoisticamente, è bello essere alla guida di un gruppo perché si comanda. Ma senza coloro che lavorano per noi, non siamo nessuno. Non siamo più meritevoli di loro.

Buoni maestri

Anche i grandi hanno i loro miti. Quali sono stati dunque i maestri di Oscar Farinetti? «Nell’ordine: alcuni mercanti ambulanti, che andavano nelle piazze a vendere prodotti biologici ben prima che diventasse una moda radical ed eco chic», ricorda il patron di Eataly. «Grandi personaggi che hanno dedicato una vita al mondo dell’agricoltura e della terra, da Sergio Capaldo nella carne a Fiorenzo Giolito nei formaggi, solo per citarne un paio. E, infine, il maestro dei maestri, Tonino Guerra, il cantore della seconda metà del Novecento ed eccezionale sceneggiatore, che mi ha insegnato a infondere poesia in quello che faccio. A livello familiare, mia moglie, che mi ha sempre seguito in tutte le attività in cui ho investito, e i miei figli: tutti e tre, a un certo punto, sono venuti a dirmi che volevano lavorare con me. Questo mi ha fatto venire l’idea che se si fosse creata un’azienda nuova, realizzata insieme, se si fossero assunti responsabilità, partecipando con me all’attività creativa, vivendo speranze, delusioni e successi in modo congiunto, avremmo potuto dare vita a un’impresa longeva. Oggi hanno tutto in mano loro. Secondo me, la famiglia è ciò che conta maggiormente, rispetto a ogni altro ambito esistenziale. Come si resta vincenti? Amando i figli più dell’azienda».

Credits Images:

Dopo aver portato al successo e ceduto la catena Unieuro fondata dal padre, Natale “Oscar” Farinetti ha fondato Eataly, un’eccellenza enogastronomica italiana conosciuta (Foto Michele D'Ottavio/pho-to.it)