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Lavoro

Il lato oscuro dei licenziamenti per giusta causa

Inspiegabile il +26,5% di licenziamenti per giusta causa nel privato. La Cgia di Mestre ipotizza una pratica scorretta dei lavoratori che per usufruire dell’Aspi obbligano le aziende a licenziarli

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Potrebbe esserci un lato oscuro dietro il boom di licenziamenti per giusta causa in Italia. In una situazione economica di lenta ma costante ripresa, infatti, sembrano inspiegabili i dati sulla fine dei rapporti di lavoro, anche a fronte delle novità introdotte dal Jobs Act. I licenziamenti per giusta causa o giustificato motivo soggettivo nel settore privato hanno registrato una crescita del 26,5%, +4,6% nel complesso. Le altre tipologie di licenziamento non hanno presentato trend di crescita così importanti: +3,5% la media totale, mentre quelli per esodo incentivato sono addirittura crollati del 19%. L’aumento dei licenziamento per giustificato motivo oggettivo sembra forse più facile anche per l’orientamento recente della Cassazione, ma questo non giustifica da solo il trend generale.

IL RAGGIRO DEI LICENZIAMENTI

Secondo la Cgia, dietro i numeri sballati ci sarebbe la volontà dei lavoratori di approfittare di questa modalità per ottenere i vantaggi della copertura straordinaria da parte dell’azienda e dell’Inps.«Ad averne innescato l’ascesa», denuncia il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo, «è stata una cattiva abitudine che si sta diffondendo tra i dipendenti. Seppur in forte crescita, questo fenomeno presenta delle dimensioni assolute ancora contenute. Nell’ultimo anno, infatti, lo stock ha interessato 74.600 lavoratori. Se, comunque, seguiterà questa tendenza, è evidente che nel giro di qualche anno ci ritroveremo con numeri molto importanti».

Con l’introduzione della riforma Fornero, dal 2013 le aziende devono pagare una sorta di tassa di licenziamento, una somma pari al 41 per cento del massimale mensile della NASpI per ogni 12 mesi di anzianità aziendale maturata negli ultimi 3 anni. Per chi ha lavorato almeno 3 anni, la cifra può sfiorare i 1.500 euro. Con il sistema delle dimissioni online, è diventato più “conveniente” non presentarsi al lavoro e costringere il datore di lavoro ad avviare l’iter di licenziamento e avere maggiori vantaggi.

DANNO PER AZIENDE E INPS

«Se una impresa contribuisce ad aumentare il numero dei disoccupati» dichiara il segretario della, Cgia Renato Mason, «provoca dei costi sociali che in parte deve sostenere. Negli ultimi tempi, però, la questione ha assunto i contorni di un raggiro a carico di moltissime aziende e anche dello Stato, perchè un numero sempre più crescente di dipendenti non rispetta la norma e costringe gli imprenditori al licenziamento e, di conseguenza, fa scattare la Nuova ASpI (NASpI) in maniera impropria». Per i sindacati si tratta di una forzatura, ma i dati Inps sull’attivazione di pin per le dimissioni online sembrano avallare almeno in parte la tesi della Cgia.

«Questo astuto espediente», conclude Zabeo, «sta creando un danno economico non indifferente. Non solo perchè costringe il titolare dell’azienda a versare la tassa di licenziamento che, come dicevamo, può arrivare fino a 1.500 euro, ma anche alla collettività che deve farsi carico del costo della NASpI. Se quest’ultima viene erogata per tutti i 2 anni previsti dalla legge Fornero, il costo complessivo per le casse dell’Inps può arrivare fino a 20 mila euro a lavoratore».