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Includere fa ricca l’azienda

La diversity non è una questione meramente etica, ma di buon senso. Anche per gli affari. E ai brand non si chiede più di aderirvi nella forma, ma soprattutto nella sostanza

Una storia che circola nel ristretto gruppo di giornalisti che lo intervistarono vuole il leggendario Subcomandante Marcos, l’uomo simbolo dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale, appassionato di Coca-Cola. A chi gli faceva notare l’incongruenza, visto che la bevanda era un simbolo ­della cultura americana e imperialista, lui rispondeva guascone che parte della sua lotta consisteva nel bersi tutta la Coca-Cola degli americani per lasciarli senza. Oggi il comandante potrebbe sentirsi un po’ meno in colpa: il colosso Usa ha vinto la prima edizione del Diversity Award, il premio assegnato all’azienda che­ meglio si è impegnata nella promozione di una cultura inclusiva, che cioè accolga e non discrimini la diversità. Cultura dell’inclusione e marketing sembrano pianeti di sistemi solari diversi, ma forse si stanno avvicinando. Sempre più brand stanno dimostrando una maggiore sensibilità al tema, anche se non sempre è chiaro quanto per interesse o convinzione.

Che ci sia un cambiamento in corso lo conferma Emanuele Acconciamessa, Chief Operating Officer di Focus Mgmt, società di consulenza strategica. «Molte aziende non hanno mai avuto il coraggio di parlare di inclusione all’esterno, perché c’era il timore che si potesse perdere la cosiddetta pancia del mercato. In realtà, analizzando i numeri ci si accorge di come questi siano forti ed estesi: la pancia del mercato contiene a sua volta sette forme di diversità mappate dalla letteratura scientifica, cioè ageing, gender, disabilità, orientamento sessuale, religione, etnia e status socioeconomico».

Insomma, una cultura inclusiva non è preferibile solo eticamente ma anche economicamente. Almeno è quanto emerso nel corso del primo Diversity Brand Summit di Milano, un appuntamento al quale hanno partecipato una serie di marchi che hanno cominciato a promuovere concretamente la cultura dell’inclusione. Li ha chiamati a raccolta Diversity Lab, associazione non profit impegnata ad abbattere le discriminazioni nella società e nelle aziende, e la già citata Focus Mgmt. «C’è chi è consapevole di quanto sia importante da un punto di vista commerciale lavorare sull’inclusione, c’è chi ha bisogno ancora di capirlo», ammette Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente di Diversity Lab. «I dati a livello internazionale sono molto chiari, però tutto ciò che riguarda discriminazioni e pregiudizi purtroppo passa prima dalla pancia che dalla testa, quindi non è semplice convincere le persone ad attivarsi. Con il Diversity Brand Summit abbiamo cercato di mostrare quanto l’inclusione incida proprio sotto il profilo del business». Il Diversity Brand Index è l’indice creato appositamente per dimostrare di quanto una certa apertura faccia bene ai conti di un’azienda prima ancora che alla coscienza del management; misura, infatti, la percezione che i consumatori hanno di un brand per quanto riguarda il suo approccio alle diversità. Il passaggio interessante è quello successivo, cioè l’individuazione di una relazione tra quella percezione e il Net Promoter Score (Nps), un altro indice che a sua volta misura la proporzione di acquirenti che si sentirebbero di consigliare, o sconsigliare, un prodotto. E i dati sono davvero interessanti.

Un marchio percepito come particolarmente attento alla diversità ha un indice Nps pari al 70,8%, il che vuol dire che oltre due consumatori su tre si sentirebbero di promuoverlo, il che a sua volta ha un impatto misurabile sulle vendite, le quali possono aumentare fino a un 16,7%. Un altro dato rilevante, relativo all’Italia, riguarda quell’80% di consumatori che dichiara di preferire marchi inclusivi. È questo il risultato di un sondaggio, condotto su un campione di mille persone, rivelatosi essenziale per realizzare il Diversity Brand Index, determinante tanto quanto il lavoro della commissione di 15 docenti universitari che ha poi valutato i progetti in gara. «Comunicare è importante per creare una sensibilità sul tema ma il ruolo aziendale non si può fermare lì: per il Diversity Award abbiamo valutato 42 progetti candidati dai brand percepiti come più inclusivi che hanno fatto qualcosa di concreto per la diversità, questo per evitare di esaltare esperienze forti solo in termini di comunicazione», aggiunge Acconciamessa. «C’era bisogno di far capire, con numeri e fatti, quanto i consumatori scelgano davvero in base al modo in cui un brand si pone. Non lo facciamo consapevolmente, ma la ricerca lo dimostra», ragiona la fondatrice Diversity Lab. «Per noi è importante che un’azienda riesca a parlare a tutti. Sembra che una persona giovane desideri che una certa azienda sappia parlare anche agli anziani, che un gay voglia che un marchio si rivolga anche agli etero. Credo che questo accada perché scegliamo brand che non escludono chi ci è vicino o è importante per noi».

In Italia questa consapevolezza è emersa solo di recente. Lo crede Vecchioni ma ne è convinto anche il Coo di Focus Mgmt: «Diciamo che – fatta eccezione per Benetton, che è stato un po’ un apripista – solo negli ultimi dieci anni si sono iniziati a vedere elementi di comunicazione più spinti, che però si sono concretizzati in politiche attive negli ultimi due o tre anni». Per Acconciamessa, complice è stata la polarizzazione prodotta da alcuni temi dibattuti in Parlamento, come le unioni civili o lo ius soli. Questo ha spinto diversi brand a schierarsi, come ha fatto Saiwa con lo spot in cui comparivano dei biscotti che riproducevano una famiglia arcobaleno.

Non sempre, però, si sono schierati in senso inclusivo. Fece scalpore Guido Barilla quando, ai microfoni di Radio24, dichiarò che negli spot della nota marca di pasta non sarebbe mai entrata una coppia omosessuale. «Lo sfruttamento di un trend politico», spiega Acconciamessa, «a volte ha portato a epic fail. Quella di Barilla fu una dichiarazione forte e negativa per l’azienda, che ancora oggi ne paga le conseguenze. Però, resasi conto del problema, ha sentito la necessità di iniziare a lavorare e affrontare la diversità in una maniera nuova e più evoluta. Purtroppo, se l’epic fail ha avuto una grossa risonanza mediatica, tutta l’azione di recovery non è stata molto considerata». Passi falsi a parte, è innegabile che nei confronti del tema le aziende stiano mostrando un approccio diverso, così come è innegabile che a guidarle siano considerazioni soprattutto economiche: il pubblico apprezza e il cliente ha sempre ragione. Sorprende, però, questo accada mentre si registra un aumento del numero di episodi di violenza, verbale e non solo, a sfondo etnico e religioso, e mentre partiti xenofobi mietono successi in Europa. Può essere che questa attenzione da parte dei consumatori sia una reazione a un clima in cui è la paura del diverso a dominare oppure, ugualmente verosimile, che i dati degli uffici marketing si riferiscano a quella fetta di pubblico meno toccata dalla crisi. In genere, quando aumenta il disagio, diminuisce la propensione all’apertura e alla tolleranza.

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