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Le aziende non evadono

Parla il presidente del Censis e della Fondazione Rete Imprese Italia. «Il grosso dell’evasione sta altrove. Ed è difficilissimo reprimerla». Lo dice Giuseppe De Rita. Che sui giovani spiega: «La mia generazione ha studiato per imparare, quella di oggi per raggiungere uno status»

«Allora, che dobbiamo fare, di che cosa dobbiamo parlare?». Giuseppe De Rita, cofondatore, presidente e segretario del Censis, il più importante istituto di ricerche sociali italiano che ogni anno con il suo Rapporto fotografa la situazione del Paese, risponde così quando gli si chiede un’intervista. Lo fa sempre, quasi per una caratteriale inclinazione all’understatement, per respingere quell’etichetta di interprete unico e autentico della realtà nazionale. Lo ha fatto anche questa volta prima di rispondere alle domande di Business People sulle ultime di cronaca dal fronte della politica e dell’economia: la manovra, i tagli, il Tremonti pensiero, l’evasione, i disoccupati, i bamboccioni e avanti così. De Rita è la persona giusta anche perché è stato chiamato a presiedere la Fondazione di Rete Imprese Italia, il soggetto di rappresentanza nato dalla fusione delle cinque più rappresentative associazioni del lavoro autonomo: Cna, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti e Casartigiani.

Dobbiamo parlare di questa valle di lacrime professore, va bene?D’accordo. Da dove incominciamo?

Partiamo dall’intervista del ministro dell’Economia al Corriere della Sera del 31 maggio. Alla fine, dopo aver risposto a varie domande di Aldo Cazzullo, Giulio Tremonti fa un’affermazione un po’ stupefacente: «Vorrei introdurre una norma rivoluzionaria per cui tutto è libero tranne ciò che è vietato dalla legge penale o europea. E se anche questa norma comportasse la necessità di una riforma costituzionale, io vorrei essere fra i primi firmatari di una legge di riforma così fatta». Questa intenzione si sta traducendo in realtà, ma la domanda è: anche lei, professore, la firmerebbe?Io non amo le regolamentazioni, ne abbiamo già troppe. Viviamo in un eccesso di riferimenti. Quindi, per certi versi, Tremonti ha ragione. Però non vorrei che la sua iniziativa portasse a una crescita di indeterminatezza. Questa non mi andrebbe bene. Perciò credo che sarebbe meglio restare così come siamo.

Restiamo allora a Tremonti. Quando ancora non si conoscevano i dettagli degli interventi del governo in economia, lei ha parlato delle «vicende un po’ stralunate della manovra di correzione dei conti pubblici». Ora la manovra la si conosce punto per punto. Qual è il suo giudizio? La approva, la ritiene utile?La ritengo corretta e giusta nelle sue grandi linee, quelle che contribuiranno per i due terzi ai maggiori introiti che lo Stato si propone di ottenere da queste misure. Parlo del blocco delle retribuzioni nel pubblico impiego e del taglio dei trasferimenti agli enti locali. Non mi convince invece tutto il resto, quel profluvio di iniziative, di annunci, di proclami che rischiano di ridurre l’impatto della manovra stessa, di spostare il dibattito su una quantità di discussioni stravaganti, su temi del tutto irrilevanti.

Con che cosa se la sta prendendo di preciso?Con tutto il contorno della manovra che si occupa anche di enti lirici, di turismo, di aiuti al cinema, di triennali, quadriennali, e via dicendo. Tutte cose che, ripeto, distolgono attenzione ed energia dai due punti davvero qualificanti di tutta la vicenda. E questo è un errore politico: bisognava concentrarsi su quei due o tre interventi forti, drastici e lasciar stare tutto il resto. Adesso, se si segue il dibattito mediatico, sembra che Tremonti se la sia presa solo con gli enti culturali.

Invece se l’è presa con gli statali. Visto che la crisi economica ha colpito soprattutto l’industria creando centinaia di migliaia di senza lavoro, il ministro ha pensato bene di mirare su chi invece ha uno stipendio, magari non altissimo, però assicurato, che nessuno mette in pericolo. Secondo lei ha fatto bene?Oggi ci si commuove per i precari e non si prova compassione per chi precario non è. Il governo ha anche colpito l’impiego pubblico perché sa che non ci saranno grandi proteste. Il sentimento popolare oggi in qualche modo è ostile ai dipendenti pubblici. Lo slogan ripetuto da mesi sugli statali fannulloni ha preparato questo clima, diciamo di non simpatia nei loro confronti.

Vuol dire che il ministro Renato Brunetta ha fatto da apripista al suo collega dell’Economia?In un certo senso sì. Vedrà che ci sarà qualche protesta per il blocco degli stipendi, ma non si andrà molto più in là.

Gli statali potrebbero proclamare degli scioperi.E allora? Oggi una gran parte delle competenze veramente operative dello Stato è già trasferita alle Regioni. Quello che è rimasto allo Stato centrale, ai ministeri, viene svolto da poche persone che stanno nel gabinetto del ministro. Provi a farsi un giro in un ministero, uno qualsiasi, vedrà il vuoto. Quindi se gli statali minacciano uno sciopero, non spaventano nessuno. Gli stessi grandi sindacati, la Cisl ma anche la Cgil, hanno capito che il pubblico impiego non è più un punto di forza del movimento dei lavoratori. Quindi strilleranno un po’, ma nessuno li starà a sentire. Il governo sa che non avrà problemi sotto questo aspetto.

Chi strilla, e forte, sono i magistrati. È stato giusto intervenire sui loro stipendi?Ma in linea di principio sarebbe un bene. Però si sapeva che i magistrati avrebbero protestato e con decisione. Sono una delle tre istituzioni, si ritengono una parte terza, vogliono autodefinire tutto quanto li riguarda. Tagliare le loro retribuzioni, alla fine contribuirà poco al risultato economico complessivo della manovra. Si poteva evitare, è inutile dare l’impressione di voler mettere tutto a ferro e fuoco.

L’altra parte significativa delle misure governative riguarda gli enti locali: i trasferimenti a Regioni e Comuni sono stati tagliati di una decina di miliardi. C’è un aspetto che sorprende: questo governo si basa sull’appoggio decisivo della Lega. E il partito di Umberto Bossi vuole privilegiare ogni forma di localismo a danno del centralismo romano. E allora perché non si è opposto a un provvedimento come questo che toglie linfa finanziaria a Regioni, Province e Comuni? Perché la Lega è stata zitta e buona?Adesso loro pensano solo al federalismo fiscale e non possono permettersi di giocare ai finiani rischiando di compromettere questo obiettivo prioritario. E poi questi tagli toccano solo marginalmente le loro Regioni. La serie storica dei trasferimenti finanziari al Nord, tutto sommato, alla Lega sta bene così. In attesa, ovviamente, del federalismo.

Ma si farà davvero questo federalismo? Lei ci crede?Io credo a chi ci crede. Comunque ci hanno detto che entro breve verranno resi noti tutti i passaggi, tutti i singoli dettagli. Quindi non ci resta che aspettare. Vedremo.

Ma ha davvero senso farlo?Il federalismo ha una sua motivazione tecnica e politica che ha a che fare con il senso di responsabilità, sempre più spesso invocato. Se pensiamo che gli amministratori locali vadano responsabilizzati e giudicati sulla base di quello che fanno, allora bisogna dare applicazione a questo convincimento.

Il terzo pilastro della manovra, dopo il blocco degli stipendi nel pubblico impiego e il taglio dei trasferimenti agli enti locali, è rappresentato dalla lotta all’evasione fiscale. È un tema che ritorna sempre e giustamente perché si parla di cifre strabilianti: il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua ultima relazione ha confermato che si tratta di qualcosa come 120 miliardi di euro. Ma lei pensa che si potranno davvero ottenere i risultati decisivi che ci si aspettano in questo settore?È un terreno difficile. Difficile perché io sono convinto di una cosa: il grosso dell’evasione non viene dalle imprese, ma viene dai singoli, dai piccoli lavoratori autonomi. Io invito chiunque ad andare una domenica in campagna con amici. Quando si tratta di pagare il giardiniere, il muratore che ha riparato il muro di cinta, il falegname che ha fatto uno scaffale, l‘evasione la si tocca materialmente. Nessuno di questi signori vuole emettere una fattura: tutti esigono di essere pagati in nero e in contanti. E se lei non accetta, la prossima volta che le occorrerà non troverà giardinieri, muratori, falegnami. Questo è il famoso sommerso di cui si parla da anni, fatto da pensionati, da persone che fanno un doppio lavoro.

Ma questi piccoli o piccolissimi renitenti alla fattura riescono ad arrivare ai famosi 120 miliardi di evasione? Fanno tutto loro? Davvero le aziende non c’entrano?Stiamo parlando di piccole evasioni singole, ma fatte da milioni di persone quotidianamente. E sommate portano a cifre altissime. Non so se siano i 120 miliardi, ma certo non sono briciole. E ripeto: a mio avviso il grosso viene da qui e non dalle aziende. Se la Guardia di Finanza va a fare una verifica in un’impresa, trova tutto, anche i 100 euro di nero nascosti dal proprietario per comperare i fiori all’amica.

Ma lei non crede che qualche contributo all’evasione lo diano le filiali delle multinazionali che trasferiscono gli utili nei Paesi a fiscalità più conveniente?Può darsi, ma sa: questo è inevitabile, non glielo si può impedire. Le multinazionali sono l’espressione della nostra attuale società liquida. E quando una società è liquida è difficile da afferrare.

La manovra del governo è stata accusata di essere solo correttiva e non espansiva. Di non fare nulla, per esempio, per il problema dei giovani che diventa ogni giorno più preoccupante: gli ultimi dati indicano che uno su tre è senza lavoro. Vede qualche modo concreto per intervenire?Purtroppo non credo che ci sia molto da fare. Questa è una generazione cresciuta in modo diverso rispetto a quelle precedenti, dalla mia o anche da quella del ’68. Ha studiato non per imparare, non per guadagnarsi un avanzamento, ma per conquistarsi uno status.

La mitica laurea? Il pezzo di carta?Proprio quello. Le famiglie hanno inculcato nei ragazzi l’idea che devono assolutamente laurearsi. Ed è questo imperativo che ha fatto nascere centinaia di migliaia di bamboccioni. Io ho sempre in mente il caso del mio barbiere, quello in campagna da cui vado da anni. Un giorno sono entrato nel suo negozio e l’ho trovato raggiante. Mi ha detto: mia figlia si è laureata. E io gli ho chiesto: in che cosa? E lui: in Scienze delle comunicazioni di massa. Devo aver fatto un’espressione decisamente perplessa. Con molto garbo ho cercato di spiegargli che quella laurea difficilmente le avrebbe procurato un posto di lavoro. Lui è stato un po’ in silenzio, poi mi ha risposto: dottore, io faccio il barbiere da 45 anni, mia moglie da 40 fa la colf. Il nostro sogno era che nostra figlia si laureasse e adesso lei è laureata. Dottore, per favore, lasci perdere il resto.

E lei ha lasciato perdere?Certo. Si lascia perdere. Per milioni di volte.

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Giuseppe De Rita è il presidente del Censis, il più importante istituto di ricerche sociali in Italia che lui stesso ha fondato nel 1964, ed è stato chiamato alla presidenza di Rete imprese Italia. Laureato in Giurisprudenza, è stato presidente del Cnel (Consiglio nazionale economia e lavoro) dall’86 al 2000 e della casa editrice Le Monnier dal 1995.