Connettiti con noi

Attualità

Dai il peggio di te

Dal mitico Crack! al recente Plan social. Perdere tutto, licenziare i dipendenti, darsi al “cazzeggio” o interpretare ricettatori e mafiosi: perché è impossibile resistere ai giochi “politically incorrect” (e quali sono). Il parere di Francesco Alberoni (sociologo) e Spartaco Albertarelli (giocologo)

architecture-alternativo

L’ultimo esempio è Plan social, gioco di carte francese che trasforma i partecipanti in azionisti. Lo scopo è licenziare tutti i dipendenti per trasferire l’azienda in Cina. Il primo a riuscirci si aggiudica la vittoria. Sulla scatola campeggia John-Harvey Marwanny, presidente della Marwanny Corporation, società ideatrice del gioco. Non solo, sempre lui riappare su tutte e 52 le carte, con altrettanti travestimenti e parrucche improbabili, per interpretare i poveracci da licenziare: dal volgare ”estrattore di seme porcino” all’“uomo politico in impiego fittizio”, fino all’“incaricata di marketing aggressivi”. Cinico, irriverente, provocatorio? Tra i cugini d’Oltralpe ha spopolato: uscito in 3 mila copie a fine ottobre 2010 è andato esaurito nel giro di un mese e mezzo – senza alcuna pubblicità – e la società editrice Airplay è stata costretta a ristamparne a grande richiesta e in tutta fretta altre 10 mila copie. Anch’esse, è inutile dirlo, sono andate a ruba, creando un piccolo caso. Marwanny si è difeso dalle critiche sostenendo che Plan social non è affatto una provocazione ma «si inserisce nel filone dello sviluppo personale indolore». «Trasformare la crisi in opportunità è quello che cerchiamo di insegnare al pubblico», sostiene. «Il nostro dovere è quello di convertire ogni problema in un’opportunità e ogni occasione in denaro sonante». E a chi gli chiede se l’impostazione del gioco non gli sembra politicamente scorretta risponde: «La mia unica preoccupazione è l’efficienza. Non m’importa il punto di vista dei benpensanti. Aiutiamo le persone a crescere, ad avere successo e arricchirsi: che volete di più?».

L’ULTIMO DI UNA LUNGA SERIE

Del resto si tratta solo dell’ultimo caso salito agli onori delle cronache. Se i videogame sembrano ormai destinati a far quotidianamente discutere per contenuti ritenuti diseducativi, non è certo la prima volta che un gioco di carte o da tavolo sovverte la morale tradizionale. Di anni ne sono passati da quando Hasbro (con il marchio MB) immise sul mercato l’ironico Crack! che per vincere chiedeva di scialacquare il più rapidamente possibile un milione di dollari tra corse di cavalli, borsa e casinò. E basta dare un’occhiata sul Web per scoprire decine e decine di titoli quanto meno irriverenti. Dal più tradizionale Bang!, in cui i fuori-legge danno la caccia allo sceriffo e il rinnegato trama nell’ombra pronto a schierarsi da una parte o dall’altra, a Razzia! dove famiglie mafiose italiane a New York devono far fiorire i loro traffici evitando di essere colti in flagrante dalla polizia – in questo filone i titoli si sprecano, fare un elenco esauriente è una missione impossibile, ma possiamo citare, tanto per fare un esempio, anche Master thief e Thief of Bagdad dove i protagonisti sono ladri e ricettatori – a Chez Geek, dove il vincitore è chi riesce a raggiungere il più alto livello di “cazzeggio”. Se poi il tedesco Fiese freunde fette feten, traducibile in “Amici strambi, feste folli” (disponibile anche in inglese con il titolo Funny friends), può essere definito vizioso nel senso letterale del termine, visto che gli scopi da raggiungere chiamano in causa esplicitamente tutti i vizi immaginabili, tanto da renderlo vietato ai minori di 16 anni, Ideology arriva a proporre sul tabellone lo scontro di civiltà e le sue conseguenze sull’assetto mondiale.

POLITICALLY INCORRECT PER DEFINIZIONE

Eppure non ha senso perdersi in polemiche, almeno secondo Spartaco Albertarelli, autore di giochi, dal 1992 responsabile dello sviluppo della linea Risiko per Editrice Giochi: «In quanto tale il gioco è spesso e volentieri politically incorrect: se ci pensiamo quasi sempre ci troviamo a fare cose che non riterremmo accettabili nella vita reale. Tutto questo però non ci spaventa minimamente, perché ci muoviamo in uno spazio libero e separato in cui è lecito ridere delle miserie quotidiane. Naturalmente esistono dei limiti oltre i quali non bisognerebbe andare», ammette, «ma possiamo dire che fare leva su temi normalmente considerati poco corretti rientra nella sua sfera logica. Non c’è nulla da temere, nessun gioco ha mai provocato niente più di una serata di divertimento o ha mai cambiato gli atteggiamenti dell’umanità in alcun modo. Certo», spiega, «tendenzialmente io non amo creare ambientazioni con una forte attinenza con la realtà, ma da tecnico non trovo nulla di scandaloso né tanto meno di pericoloso nel fatto che qualcuno lo faccia. Spesso i giochi hanno successo proprio perché ribaltano un punto di vista comune». Ne è una prova il fatto che uno dei giochi di società tra i più celebri al mondo, Monopoly, benché considerato innocente, abbia in realtà acquisito tanta popolarità solo dopo aver perso il suo originario intento formativo. «Nato in America per veicolare un messaggio di equità sociale contro i monopoli, è divenuto un successo commerciale solo dopo essere stato trasformato radicalmente nel suo opposto, quando lo scopo della partita è divenuto quello di far fallire i propri avversari», racconta Albertarelli. «Il primo messaggio era giusto, il secondo sbagliato, ma nell’ambito del gioco solo uno dei due si è rivelato divertente». E forse non era ancora sufficiente, visto che nel 1973, da un ulteriore ribaltamento, è nato anche l’Anti-monopoly. Insomma, un minimo di cattiveria, cinismo o trasgressione ci vuole. Se non è il gioco a prevederla, ci pensano i giocatori a introdurla portando al limite la competizione. «Il gioco e la realtà sono due mondi separati, ciò che è veramente importante è tenere sempre presente questa distinzione e allo stesso tempo accettare la dualità insita nella personalità di ognuno», osserva Albertarelli. Quindi, anche se non ne ha mai creato uno, c’è un gioco di questo tipo che trova riuscito? «Beh sì, c’è n’è uno molto popolare che viene chiamato in diversi modi, in Italia è per lo più noto come lupi mannari (nome commerciale Lupus in tabula ndr). Inscena una lotta per la sopravvivenza tra i lupi mannari, appunto, e gli abitanti di un villaggio. È un gioco un po’ brutale e allo stesso tempo molto coinvolgente che in diverse parti del mondo non ha questa ambientazione fantastica, ma mima una lotta tra mafiosi e infiltrati». Quindi in fondo un’ambientazione “politicamente scorretta” può favorire il successo del gioco? «Non è detto. Io amo dire che nel mio campo i grandi successi hanno di solito una sola caratteristica comune: chi vince può vantarsi di essere stato più bravo degli altri e chi perde può dare la colpa alla sfortuna e sperare di rifarsi alla partita successiva».

Il commento di FRANCESCO ALBERONI

«La prima cosa che mi viene in mente è la parola adolescenziale, perché in fondo ci troviamo di fronte a un rovesciamento di prospettiva e un adolescente per sua natura si ribella ai genitori, fa il contrario di quello che gli dicono. Si gioca sul gusto del paradosso, dell’inatteso, dell’anticonformismo. Si tratta di giochi “politicamente scorretti”, ma in fondo riflettono una società che si sente malata, in cui effettivamente ci sono ladri, mafiosi, falsari, datori di lavoro cinici che per guadagno decidono di spostare la propria azienda in oriente. Non so dire se interpretare questi ruoli per gioco sia una sorta di sfogo che ci impedisce di fare lo stesso nella realtà o possa rappresentare una sorta di allenamento, però di certo rispecchia una società che vive un certo disagio. Su questa linea si potrebbe, per esempio, pensare a un gioco in cui l’obiettivo sia quello di creare una città sommersa dall’immondizia. Di certo non esprimerebbe il desiderio di fare lo stesso nella propria città, ma, semplicemente, il fatto di essere rimasti colpiti da quanto accade periodicamente a Napoli».