
Milanese, ma d’origine pugliese («con un quarto di sangue turco»,tiene a precisare), Nicola Ciniero, 58 anni, è al vertice di Ibm Italia
Non tutti lo sanno, ma l’acronimo Ibm sta per International business machines, e nello specifico le macchine che produceva T. J. Watson nel 1911 erano bilance. Immaginare questo e guardare cos’è diventato oggi Big Blue, in termini di dimensioni (più di 400 mila dipendenti in tutto il mondo per un fatturato di circa 104 miliardi di dollari) e di ampiezza delle attività (dalle nanotecnologie in ambito medicale ai sistemi cognitivi passando per gli analytics e i software gestionali), rende bene l’idea di quanto i concetti di evoluzione e trasformazione siano profondamente radicati nel Dna dell’azienda. Abbiamo per questo chiesto a Nicola Ciniero, presidente e a.d. della filiale tricolore di Ibm, quale direzione l’Italia deve seguire per vivere la metamorfosi (economica, politica, sociale) di cui il Paese e i cittadini oramai non possono più fare a meno.
Quali sono le proposte e soprattutto i fatti che si aspetta da chi è appena entrato in Parlamento?
Oramai le proposte non hanno più colore né partito, l’Italia è arrivata a un punto tale per cui è molto semplice capire cosa fare: al di là dei singoli interventi serve un paradigma nuovo. Niente dichiarazioni di principio, ma tre azioni: il rilancio del Paese, l’ottimizzazione della pubblica amministrazione e la semplificazione normativa. Prima era solo la politica la parte deputata a cambiare l’economia. Ora serve una roadmap che faccia collaborare politica e aziende. L’Italia è diventata poco attrattiva per i capitali esteri, si contraddistingue per indici che sono tra i più bassi in assoluto, e persino la Spagna − che rispetto ai fondamentali economici è messa peggio di noi − attrae il doppio degli investimenti rispetto a quanto riesce a fare il nostro mercato.
Chi ha colpe maggiori?
Entrambi le parti devono guardarsi serenamente allo specchio e capire quali sono stati i propri errori. Ma non possiamo prescindere dal fatto che viviamo e lavoriamo in un Paese dove non c’è certezza per quanto riguarda il diritto e la giustizia, con cause e processi che comportano tempi biblici. E la normativa? In Italia abbiamo avuto anche casi di leggi retroattive, che per inciso sono anticostituzionali. Ci accorgiamo solo ora che le nostre università hanno perso 50 mila studenti e che 279 mila aziende sono fallite l’anno scorso. La verità è che è miope far delocalizzare le aziende, e i Paesi più avanzati l’hanno capito: tre anni fa Audi, in Germania, aveva dichiarato di voler delocalizzare alcuni stabilimenti in Austria e Romania. Il governo tedesco si è subito premurato di capire quali fossero i problemi che spingevano l’azienda a investire all’estero. Audi l’ha spiegato e il governo ha messo il gruppo in condizione di rimanere in patria non con una legge ad hoc, che nella maggior parte dei casi non risolve nulla, ma disegnando una rotta grazie alla quale l’intero sistema tedesco avrebbe avuto le caratteristiche richieste nel giro di quattro anni. Oggi invece, da noi, le aziende dei distretti comasco e brianzolo sono tempestate di offerte di delocalizzazione da parte delle agenzie di promozione svizzera e austriaca. Io penso sia inaccettabile. Fortunatamente abbiamo anche aziende, come Smeg, che resistono alle sirene della delocalizzazione. Il cavaliere Bertazzoni è un vero esempio per tutti.
Da dove ripartire?
Dopo 150 anni questo Paese non è ancora riuscito ad affrontare e risolvere il problema del Mezzogiorno. Eppure lì ci sono poli universitari di eccellenza, ottime aziende, infinite risorse umane e territoriali. Si tratta di renderlo accessibile, attraente e sicuro, e a quel punto diventiamo noi il mercato ideale in cui costruire quei centri servizi che attualmente vengono realizzati in India e in altre nazioni emergenti.
Quindi dev’essere questa la priorità della politica?
Se non vengono risolti i problemi basilari del Paese, non andiamo avanti. Ma guarda caso nelle proposte politiche che si sono sentite durante la campagna elettorale sono sparite due cose: il Mezzogiorno, per l’appunto, e l’Agenda Digitale. Sono due driver che ci permetterebbero di liberare risorse per rilanciare lo sviluppo, ma se non ci si mette d’accordo, rischiamo di attivare interventi che non servono a niente. Noi finalmente abbiamo un’agenda digitale. Certo, siamo in ritardo rispetto agli altri Paesi: se penso che nel 1982, in Francia, Edith Cresson ha varato quello che sarebbe diventato il Plan national de l’informatique
, direi che nella migliore delle ipotesi soffriamo di un ritardo di vent’anni nel processo di allineamento ai Paesi civili. E per rendere il tutto operativo occorrono 32 decreti attuativi ancora da approvare…
E per quanto riguarda le infrastrutture informatiche, chi deve prendere l’iniziativa?
Ripeto: se non si mette insieme un tavolo congiunto tra aziende e politica sui contesti competitivi, non se ne esce. La banda larga, per esempio, è un finto problema. È utile solo se girano contenuti sulla Rete. Ma soltanto ora si sta muovendo qualcosa su questo fronte. A che serve la banda larga se Internet è presente appena nel 50% delle case contro l’80 e il 90% dei Paesi nordici? L’iscrizione alla scuola on line e i servizi telematici dell’Inps sono un primo passo per diffondere l’utilizzo del Web. Questo è quel che ci occorre. Prima di tutto va movimentato il Paese, poi pensiamo all’infrastruttura, con un piano strategico di razionalizzazione e consolidamento.
Il fronte dell’occupazione. Negli altri mercati si ricorre sempre più spesso alla riduzione del monte ore dei lavoratori. Potrebbe essere una strada anche per noi?
Non credo sia quello il problema italiano, che riguarda più che altro come è fatto il nostro mercato del lavoro: allungamento dell’età pensionabile e rigidità in entrata e in uscita. Se prendiamo un minatore del Sulcis e lo facciamo lavorare fino a 65 anni, mi dice cosa possiamo ottenere da quella persona? Le cito invece di nuovo la Germania, dove sono stati istituiti gli incentivi per realizzare le fabbriche lente, dove lavorano i senior e dove gli operari over 60 insegnano il mestiere alle nuove leve. Si tratta ancora di un esempio di collaborazione tra politica e aziende. Abbiamo dei casi di successo anche in Italia, per fortuna: guardi cosa ha fatto Assolombarda in accordo con la Regione e il ministero del Welfare. Si tratta di una legge-ponte in virtù della quale ai dipendenti cui mancano 36 mesi alla pensione viene offerta la possibilità del part-time. E mentre la Regione Lombardia paga il complemento affinché la contribuzione pensionistica rimanga immutata, l’azienda si impegna ad assumere un giovane, anche in contratto di apprendistato, per ogni lavoratore che accetta la formula. Il risultato è triplice: non si portano le persone alla consunzione sul posto di lavoro, si permette ai giovani di accedere a una professione e si aumenta la base di chi paga contributi. Ma per risolvere definitivamente il problema vanno riviste le questioni dell’alternanza scuola/lavoro e della formazione, che non può più essere sostenuta solo dalle imprese. Un grande applauso ad Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda.
La cultura informatica come può aiutarci a evolvere?
Premesso che siamo un Paese senza materie prime, e quindi una nazione tradizionalmente votata alla trasformazione, dobbiamo riconoscere che la nostra è la cultura del manifatturiero. Lì abbiamo know how e capacità che hanno dato vita a distretti ultra-specializzati, senza però riuscire a fare sistema. Fino a un decennio fa, la stessa tecnologia, più difficile da dominare, costituiva una barriera per le aziende, specie le più piccole. Oggi, la sua pervasività – si pensi agli smartphone e ai tablet – è tale da averne fatto un mezzo più accessibile e a basso costo, e nel contempo in grado di generare valore. Così, chiunque può realizzare una app e iniziare un nuovo business. Se da una parte la nostra classe politica e dirigente è spesso “analfabeta” in termini informatici, dall’altra non dobbiamo sottovalutare la ricchezza di pensiero ed esperienza che caratterizza le generazioni che convivono in questo momento in Italia. Cogliendo insieme le opportunità che offrono i consumatori di stampo tradizionale, del tutto avulsi da Internet e dal digitale, quelle di chi come me vive in una condizione mediana, in cui strumenti e pratiche vecchie e nuove interagiscono, e quelle dei più giovani, che frequentano più lo spazio virtuale che quello fisico, possiamo innescare una gigantesca trasformazione del nostro paradigma. Ma è una trasformazione che va guidata, perché se non la cavalchi, ne vieni travolto. Tutte queste istanze vanno unite, ma usando il cervello.
Ibm, nel suo piccolo e nel suo grande, come cavalca la metamorfosi?
Diciamo innanzitutto che l’azienda due anni fa ha compiuto cento anni, e nel nostro settore si tratta di un record assoluto. La trasformazione fa parte del nostro Dna, e ogni cinque-sei anni mutiamo pelle. Siamo diventati ciò che si chiama una “global integrated company”, e ogni anni investiamo sei miliardi di dollari in Ricerca & Sviluppo. Da 20 anni consecutivi siamo la prima azienda a livello mondiale per numero di brevetti depositati. A proposito, è interessante andare a vedere chi c’era e chi c’è subito dietro di noi. Oggi c’è Samsung, e il fatto che si stiano avvicinando proprio loro non fa che spingerci ulteriormente ad affrontare la sfida quotidiana dell’innovazione e della tecnologia. È piuttosto emblematico che nei nostri laboratori abbiano lavorato ben cinque premi Nobel. E quando si chiedeva loro perché restare in Ibm anziché andare in giro per conferenze e guadagnare molto di più, rispondevano in maniera unanime: perché un ambiente e degli strumenti come quelli che forniti da Ibm non si trovano altrove. Tutto il gruppo è già proiettato sulle tematiche che saranno dominanti a partire dai prossimi cinque anni.
Entrando più nello specifico, quali sono le aree di maggior interesse?
L’implicazione delle nanotecnologie nella medicina per esempio. Oppure la creazione di sistemi cognitivi, come Watson, in grado di riconoscere domande espresse nel linguaggio naturale e di dare risposte esatte nel 99,9% dei casi, un’opportunità straordinaria per ottenere diagnostiche immediate, specialmente in ambito medicale. Pochi poi sanno che dietro la tecnologia che consente di operare una cataratta o di giocare con un videogame ci sono brevetti Ibm. Ma non finisce qui. Poco prima di Natale, nel nostro centro di ricerca di Montpellier, in Francia, mi hanno mostrato una batteria elettrica capace di far percorrere 800 km a un’auto. Un oggetto compatto come una 24 ore e che contrariamente a quanto si possa pensare non ha costi proibitivi. Naturalmente il progetto è ancora da sviluppare, visto che dopo tre ricariche quella batteria è da buttare, ma siamo già all’opera per implementarla. Nel frattempo si rivelerà utile per sistemi militari come sottomarini e aerei e altre applicazioni commerciali “mission critical”.
L’Italia che ruolo gioca in questa sfida all’ultimo brevetto?
Enorme. Il sistema cognitivo Watson è stato realizzato da un team di 30 ricercatori, all’interno del quale operano tre italiani. La parte più complessa del sistema è quella dell’apprendimento automatico per l’elaborazione del linguaggio naturale. Ebbene, anche qua la tanto vituperata ricerca italiana si è rivelata un’eccellenza, visto che per lo sviluppo di questa parte Ibm ha collaborato anche con l’Università di Trento. Vorrei aggiungere che quest’anno, per la prima volta, abbiamo un vice president a livello mondiale italiano: il suo nome è Erich Clementi, si occupa di Global technology services e riporta direttamente a Ginni Rometty, il nostro Ceo. Donna e di origine italiana. La componente femminile è importante anche nel nostro laboratorio di Roma, dove su una popolazione di 500 persone il 43% è donna. Il centro di ricerca e sviluppo laziale si coordina con le altre sedi sparse nel globo per mettere a punto il Tivoli network system management, uno dei prodotti più venduti nel mondo di Ibm, adottato per i suoi elevati standard di sicurezza dalla Nato, da diverse banche internazionali, ed è integrato con il nostro laboratorio in Israele. Giusto per dare un’idea di quant’è sicuro. Cito infine il lavoro che stiamo svolgendo a Bari sulla riscrittura su open system del software gestionale Acg, prodotto sviluppato nel 1988 che oggi vanta 10 mila installazioni e che contiamo di esportare in tutto il mondo in quanto multilingua.
LE PASSIONI DI NICOLA CINIERO | |
Libri Sono appassionato di storia. Il mio periodo preferito è quello a partire dal 1800. Per capire molti dei problemi che affliggono l’Italia e in particolare il meridione consiglio Banditi e briganti , di Enzo Ciconte |
Penne stilografiche Il mio tallone d’Achille. Adoro le Omas |
Modellismo Assemblo e dipingo i kit in scala di aeroplani d’epoca della ii guerra mondiale. I miei preferiti? Italeri e Tamiya |
Pelo e contropelo Per me radersi è un vero rito quotidiano. Ho anche scritto un libro sull’argomento. Si intitola In barba alla tecnologia |
Corse storiche Corro nelle gare di campionato italiano Autostoriche: piloto vetture come la Lotus Cortina, la Abarth 1000 e l’Alfa gta, che si guidano con il piede, le mani sullo sterzo e, come diceva Lauda, col sedere. Nel 2008 ho conquistato il titolo assoluto |
Cosa serve al vostro settore per crescere?
Lei lo sa qual è il numero di addetti dell’Itc in Italia? Siamo il terzo settore dopo la pubblica amministrazione e le banche. Ma siamo trattati come dei piccoli marziani stupidi che non contano niente. Invece noi dobbiamo essere riconosciuti come coloro che portano valore al Paese, perché promuoviamo processi di trasformazione che rendono i player del mercato più competitivi, in Italia e nel mondo. Oggi chi non è in rete è morto.
Come devono cambiare le imprese per cogliere questa opportunità?
Secondo me, in Italia abbiamo aziende migliori di come appaiono. Abbiamo imparato grazie a questa crisi a essere meno terzisti e più proprietari di marchi. Soprattutto nel Nordest le pmi si sono consorziate e hanno assunto degli export manager, e ora cominciano a lavorare all’estero. Hanno dimostrato una gran bella capacità di reazione. E rispetto all’adozione di nuove tecnologie, specialmente in campo meccanico non abbiamo nulla da invidiare a nessuno. Qualche esempio? Il polo della meccanica di Bologna compete con i tedeschi. E pochi sanno che quasi tutti i cambi automatici del mondo sono fatti dalla Graziano, in Piemonte. A Cento, in provincia di Ferrara, la Vm è leader nella produzione di motori diesel. E lo stesso vale per la Gnutti, che fa i bilanceri per Mercedes. Gli assali di tutti i camion del mondo li fa principalmente la Carraro di Padova. Ma queste aziende sono vessate in modo incredibile da tasse e vincoli medioevali, e la pubblica amministrazione che non paga o paga con estremo ritardo non fa che affossare il sistema che entra in crisi di liquidità. Quindi esistono grandi margini di miglioramento per chi vuole fare e rimboccarsi le maniche.
Ha intenzione di fare pace con Confindustria?
Precisiamo. Ibm è uscita da Assinform perché non la riteneva più adeguata alle mutate condizioni di mercato. Oggi però siamo in Confindustria Digitale. Discorso diverso per quanto riguarda Confindustria. L’Associazione ha sicuramente un grande potenziale ma ritengo che non scarichi “i cavalli a terra”. Le multinazionali poi non sono quasi considerate e questo, secondo me, è un peccato mortale. In realtà penso che il mondo associativo sia oggi in crisi di identità in relazione al ruolo che dovrebbe giocare: quello di trait d’union tra gli associati e i programmi politici che influiscono sull’economia.
L’ultima domanda. Se inseriamo tutti i dati che riguardano la situazione italiana nel vostro sistema cognitivo, potremmo trovare la formula per risolvere i problemi del Paese?
Sì. Ma si ricordi: l’importante è che i dati siano veri.
IL CV DI NICOLA CINIERO |
Il suo percorso professionale comincia nel 1979 in Sperry Univac, dove rimane due anni, fino al suo ingresso in Hewlett Packard. Tra il 1987 e il 1990 diventa responsabile marketing in Nixdorf Computer, e quindi passa in Zenith Data Systems. Il passo successivo lo porta in Whirlpool e poi in Compaq, di cui assumerà nel 1999 l’incarico di amministratore delegato. Nel 2003 approda in Ibm e guida il Communications Sector a livello di South Region fino al 2006, quando diventa a.d. del fondo di private equity Gatesworthy International. Torna quindi in Ibm come General Manager Sales per poi essere nominato nel 2009 presidente e a.d. di Big Blue nel Belpaese |