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Nato imprenditore

La sua famiglia era fra i grandi del tessile italiano, da sei generazioni. È qui che Bernardo Caprotti esordisce, spostando presto la sua attenzione verso un altro business: il retail. Da allora la sua malattia

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Permettete che mi presenti. Mi chiamo Bernardo Caprotti, sono nato a Milano nell’ottobre 1925. Mi sono sempre sentito figlio e cittadino della Brianza, di quel particolare territorio che sta fra Monza e il lago di Como nel quale i miei vecchi per lunghi anni hanno tessuto e filato cottoni…».Questo è l’incipit del libro Falce e carrello, un pamphlet scritto appunto da Caprotti, il fondatore di Esselunga, uno dei primi supermercati italiani, nel quale racconta la sua storia di imprenditore, ma soprattutto spiega perché detesta, ha sempre detestato la sinistra, i sindacati di sinistra, e in modo particolarissimo il braccio commerciale della sinistra, vale a dire Coop. La catena di grandi magazzini della Lega (quella di tradizione rossa, e non l’altra di Umberto Bossi) a suo modo di vedere fa una concorrenza spietata e sleale nel settore perché sostenuta dalle amministrazioni territoriali amiche che permettono a lei e solo a lei di aprire supermarket là dove a tutti gli altri (non allineati politicamente) non è concesso.Uomo distaccato, di poche parole, dai modi spicci, Caprotti non è diventato imprenditore: lo è nato. Però in un settore completamente diverso da quello che lo avrebbe poi reso famoso. La famiglia dei Caprotti, appunto, era fra i grandi del tessile italiano, da sei generazioni. Il padre, Giuseppe, era un antifascista accanito e questo costituiva un’anomalia nel suo ambiente. Scrive ancora Caprotti: «Bisogna dire la verità: tutta la borghesia era fascista, potrei fare la lista dei nomi». Oltre che un’anomalia, questa posizione ideologica costituiva anche un problema. Tutte le volte che si dovevano fare degli investimenti per dotarsi di nuovi telai, per modernizzare gli impianti, ci si scontrava con lo scoglio politico: chi non era iscritto al partito non otteneva l’autorizzazione a comperare quei macchinari che, nella maggior parte dei casi, venivano dall’estero e dunque avevano bisogno di un nulla osta per essere importati. E questo colpì il Bernardo Caprotti bambino. Passata la guerra e presa la laurea, il giovane Caprotti venne mandato negli Stati Uniti a fare un tirocinio, a imparare come si lavorava nella patria vincente del nuovo capitalismo. Era il 1951, la destinazione Houston. Il padre voleva, infatti, che conoscesse tutta la catena del cotone, che si impratichisse delle varie fasi della lavorazione, che toccasse con mano come la materia prima si trasformava in filato, in tessuto. Nel suo soggiorno americano conobbe qualcosa che, pochi anni dopo, avrebbe trasformato la sua vita: il supermercato. Uno strano negozio, con tante merci accumulate sugli scaffali: qualcosa che non si era mai visto in Europa e che anche in America era in fase sperimentale.

Il ritorno a MilanoTornato in Italia, dopo un capodanno a Cortina, «il 2 gennaio, alle 7 di mattina» Caprotti fece il suo ingresso nell’azienda di famiglia, iniziò la sua vita di lavoro. Il ruolino di marcia prevedeva per lui una lenta crescita, passando da un incarico all’altro, per impratichirsi, per imparare a diventare un giorno il capo. Ma le cose andarono diversamente. Dopo appena sei mesi dal suo debutto, il padre Giuseppe improvvisamente mancò. Così Bernardo a soli 26 anni si trovò alla guida di un grande gruppo industriale tessile e andò avanti a ricoprire quel ruolo fino al 1965.E mentre faceva il capitano d’industria, nel 1957 si presentò un’occasione per ampliare i suoi interessi imprenditoriali. La cosa, secondo quanto ha raccontato lui stesso, nacque in un’atmosfera mondana, nelle montagne engadinesi. Il fratello di Caprotti, Guido, era a St. Moritz per un weekend assieme a un amico di famiglia, Marco Brunelli, antiquario figlio di antiquari, anche lui appartenente alla Milano bene. I due erano all’hotel Palace e colsero casualmente la conversazione di alcuni signori seduti vicino a loro. Quei signori erano i proprietari e gli amministratori della Rinascente e discutevano fra loro della possibilità di stringere un’alleanza proprio nel settore dei supermercati con Nelson Rockefeller per portare il modello distributivo americano in Italia. Entrare in affari con lui era il sogno di chiunque, meglio di un biglietto vincente della lotteria. C’era però un problema: Rockefeller pretendeva di essere in maggioranza in qualsiasi società entrasse, dunque anche nell’ipotetica partnership con la Rinascente pretendeva di stare almeno al 51%. I padroni della Rinascente conclusero la discussione concordi nel rifiutare il progetto di alleanza con gli americani proprio perché avrebbero dovuto lasciare a loro il bastone del comando nella joint venture.Non si sa come andarono davvero le cose e sembra difficile credere che da una conversazione privata, origliata per caso durante un weekend sulle nevi, sia nato un business. E poi non bisogna mai prendere per oro colato quello che i fondatori di grandi imprese scrivono nelle loro biografie. Comunque nel racconto ufficiale di Caprotti le cose furono molto semplici e veloci: «Ci sostituimmo alla Rinascente accettando d’essere in minoranza»; Brunelli, Caprotti e altri imprenditori diedero vita a una cordata che il 13 aprile 1957 formò una società con Rockefeller. Si chiamava Supermarkets Italiani, era controllata dal partner americano al 51%, mentre il gruppo di italiani aveva il 49%. Il primo punto vendita, un locale di circa 500 metri quadrati, venne aperto lo stesso anno in viale Regina Giovanna a Milano, sotto l’insegna di Supermarket.

Il sodalizio con BrunelliMa l’alleanza non durò a lungo. Nel 1961 Rockefeller decise che l’avventura italiana era durata già troppo e mise in vendita il suo 51%. Anche su questo punto non si sa bene come andarono le cose, perché segnò la rottura del sodalizio Caprotti-Brunelli e da quel momento in poi l’amicizia si trasformò in aperta rivalità. In sintesi si può dire che entrambi cercarono di assicurarsi il pacchetto azionario del magnate americano e, con esso, il controllo della compagnia. Caprotti fu più svelto di Brunelli. All’inizio e per alcuni anni fece un po’ il padrone-finanziere, nel senso che continuò a gestire le aziende tessili di famiglia dedicando all’attività dei supermercati soltanto una parte del suo tempo. Ma presto si accorse che non poteva continuare così a lungo: il management che aveva ai vertici della Supermarkets non era della qualità che lui avrebbe voluto; e in più con il passare del tempo si appassionava al nuovo business nel quale era entrato, vedeva che c’erano delle possibilità di crescita molto superiori a quelle del maturo settore tessile. Così nel 1965 assunse la carica di amministratore delegato, pensando ancora che sarebbe stato un lavoro a termine, giusto il tempo per dare l’indirizzo giusto alla società e a formare la squadra di collaboratori adatta. «Ero lontano dall’immaginare» scrive nel suo libro «che sarei stato colpito dal bacillo del retail». Malattia dalla quale non è mai guarito.

Il bacillo del retailIn oltre 40 anni, Supermarkets è diventata Esselunga, ha 137 punti di vendita, 19 mila dipendenti. È uno dei leader italiani del retail, dietro la Coop della Lega, sua acerrima nemica. La gestione di Caprotti è stata contrassegnata da duri scontri con il sindacato, in particolare la Cgil, che in passato si definiva la cinghia di trasmissione fra il partito dominante della sinistra, il Pci, e i lavoratori. Ci furono infiniti momenti di tensione, assemblee infuocate, minacce di occupazione. Ma Caprotti non indietreggiò mai rispetto alla sua linea, e alla fine i risultati gli diedero ragione. Lo stesso si può dire della sua continua battaglia con le Coop, accusate in ogni sede di godere di un vantaggio politico assoluto e ingiusto nelle regioni governate dalla sinistra. Ora però più che alla Coop e alla sinistra, Caprotti è di fronte a un altro problema. Ha 84 anni, portati benissimo, però pur sempre 84. Chi prenderà in futuro la guida dell’azienda che ha creato? Suo figlio, Giuseppe, è stato chiamato per un certo periodo nella società, ha ricoperto vari ruoli fino a diventarne amministratore delegato. Ma per ragioni che non sono mai state completamente spiegate, la collaborazione non è durata. Questione di carattere, probabilmente. Comunque Giuseppe è uscito dall’azienda, e non è più rientrato. Da allora si è parlato molto dell’ipotesi di una vendita di Esselunga. E sono stati fatti tanti nomi di possibili acquirenti, compresa l’americana Wal-Mart, numero uno al mondo del settore. Nel 2006 è stata messa in giro una voce incredibile: che proprio la Coop stesse per rilevare l’impero di Caprotti, potendo contare anche su un forte sostegno politico in nome della difesa dell’italianità di un grande marchio, attivo in un settore importante come la distribuzione. L’interessato ha comprato spazi pubblicitari sui principali giornali per far sapere che mai avrebbe fatto un passo simile, mai avrebbe dato ascolto alle “attenzioni indesiderate” di cui era oggetto Esselunga. E tutto è finito lì. Ma allora che cosa farà della sua creatura che vale svariati miliardi di euro? Lui non risponde. E non dà molto valore ai soldi: «I quattrini non valgono nulla. Saranno sempre troppi».

I MOMENTI CLOU

7 ottobre 1925 Bernardo Caprotti nasce a Milano

1951 dopo la laurea in legge, si reca negli Usa in viaggio studio

1952 entra a lavorare nell’azienda di famiglia e poco dopo suo padre viene a mancare

1957 è socio, insieme a Marco Brunelli, di Rockfeller nel lancio di supermarkets italiani

1961 acquista il 51% di supermarkets italiani da Rockfeller

1965 diventa amministratore delegato della società

gennaio 2006 il gruppo Esselunga scorpora il patrimonio immobiliare dalle attività distributive

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Bernardo Caprotti - Nel suo soggiorno americano conobbe qualcosa che pochi anni dopo avrebbe trasformato la sua vita: il supermercato