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Beach Volley: uno sport individuale (e formativo)

Non è solo il feeling con il mare e la spiaggia a determinare la sempre crescente passione per il beach volley. Uno sport capace di mettere ognuno di noi di fronte ai suoi limiti

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Sono attimi infiniti quelli vissuti a fondo campo, fremendo nell’attesa che l’avversario dall’altra parte della rete ti spari addosso la sua palla migliore; il contatto con la sabbia calda, il riverbero e il calore del sole sulla pelle restano scolpiti nei ricordi di chiunque abbia mai giocato a beach volley, sia pure una sola volta. Niente di più semplice in fondo, che ritrovarsi coinvolti in un torneo organizzato all’ultimo minuto dallo stabilimento balneare di turno. Ma la semplicità finisce qui: non c’è niente di scontato in questo sport. «Si tratta di una disciplina molto tecnica, completamente diversa dalla pallavolo indoor», ci ha spiegato Dionisio Lequaglie, allenatore della Nazionale fino al 2010 con tante medaglie nel suo palmares. «Oggi l’Italia del beach volley vive un momento di gloria, ma è cosa recente».

Sì, perché il volley su sabbia da noi è arrivato relativamente tar­di, negli anni ‘80. Prima si giocava praticamente solo in Califor­nia, dove questa disciplina era nata, intorno al 1920, come de­rivato della pallavolo. Da allora, però, non ha mai smesso di appassionare e crescere, tanto che anche campioni come Lequaglie alla fine hanno “tradito”, per così dire, il pri­mo amore.

Cos’ha il beach volley di così speciale ri­spetto al volley tradizionale, disciplina an­tica e indubbiamente più consolidata da un punto di vista agonistico? «Mi ricorda com’era la pallavolo quando ho iniziato, nel 1978», ammette Le­quaglie. Non c’erano le specializzazioni e ogni giocatore doveva sapersi destreggiare in tutti i ruoli, ricevitore, difensore, alzato­re e così via. «Nel beach volley devi saper fare tutto. Oggi un giocatore di volley in­door professionista senza un allenamento specifico non sarebbe competitivo».

Non esisteva nemmeno la figura dell’alle­natore né quella del dirigente, non esiste­vano i club e neppure i tornei. Negli anni ‘80 il beach volley era terreno vergine, qualcosa da costruire avendo come mat­toni solo la voglia di giocare. «E dovevi es­sere un piccolo imprenditore», sorride Lequaglie «perché se volevi fare una partita dovevi organizzare tut­to, dal viaggio alle sponsorizzazioni, in compenso avevi pieni poteri sulle strategie, allenamenti, e anche il com­pagno potevi cambiarlo a ogni tor­neo, il che rendeva tutto molto dina­mico». Oggi non è più così frequente, poiché a livello internazionale il pun­teggio che dà accesso ai circuiti mon­diali e olimpici è relativo alla coppia specifica non al singolo gio­catore. Scomporre la coppia è comunque possibile, ma costa punti preziosi.

Inoltre, a dispetto del fatto che si giochi in due, il beach volley è uno sport individuale. Se nella pallavolo sbagli vieni sostitui­to. Qui invece non ci sono cambi e la tattica di gioco è sempre la stessa: individuare il giocatore più debole e metterlo in difficol­tà. Sei tu contro i tuoi avversari ma sei anche responsabile per il tuo compagno, che vince o perde insieme a te.

«Uno sport assolutamente formativo che ti mette davanti ai tuoi limiti», lo definisce l’ex ct degli Azzurri, in cui l’equilibrio è fon­damentale, come in un matrimonio: «Devi essere all’altezza dell’attacco, la pressione è fortissima sia da parte degli avversa­ri che del tuo compagno di squadra. Se non c’è una sintonia pri­ma o poi la coppia si separa. Ci sono alti, bassi, incomprensioni, bisogna saper comunicare. È una sfida continua, come sportivi e come persone».

Eppure da parte della Federazione non sembra esserci l’aper­tura necessaria a riconoscere al beach volley la dignità che me­riterebbe. Poco dopo l’exploit dei primi anni, l’Italia era il se­condo Paese al mondo. Tuttavia la Federazione, che ha preso in mano il movimento, non l’ha portato avanti come avrebbe do­vuto e per molti anni siamo stati sorpassati nelle classifiche da tutti i Paesi europei.

Non essendo considerato disciplina a sé stante, il beach volley non ha accesso a molte risorse che invece sono garantite alla pallavolo, dalle sponsorizzazioni, ai benefit, ai premi partita. Inoltre il tesseramento annuale (anziché a tempo indetermina­to, come nel volley indoor) rende difficile per le società fideliz­zare gli atleti, che possono cambiare maglia da un anno all’altro, con buona pace degli investimenti economici da parte dei club.

Con tutto ciò, l’Italia del beach volley è in una fase molto fortunata, grazie a campioni come Daniele Lupo e Paolo Nicolai. «Dopo aver smesso con la Nazionale», continua Lequaglie, «ho iniziato a allenare prevalentemente giova­ni, a latere dell’attività seniores che all’epoca era solo femminile, mentre il maschile non era competitivo. Con i miei collaboratori abbiamo anche provveduto a dare una struttura a tutto il sistema, istituendo la figura del coach e andando a cercare i ta­lenti. Di fatto i campioni di oggi, Daniele Lupo e Paolo Nicolai, vengono da quel vivaio lì. Loro e altri bravi ragazzi hanno fatto sì che l’Italia stia tornando ad avere un ruolo di primo piano nel panorama internazionale. Ed era ora».

Articolo pubblicato su Business People, luglio 2018

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