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Gusto

La chiamavano mineralità

Alla scoperta di un (falso?) mito. Vien da chiedersi se gli elementi che compongono il suolo in cui cresce un vitigno finiscano nel calice che beviamo… molti sommelier ne sono convinti, la ricerca scientifica li smentisce. Al di là del dubbio amletico, l’importante è sapere quali sono i migliori vini dal gusto “minerale” da godersi quest’estate

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Tra i vari profumi e sentori che tanti commentatori e sommelier di vino amano proclamare, specie di fronte a grandi bianchi, c’è il fantomatico descrittore “mineralità”. E forse non è un caso che i vini asciutti, freschi con note speziate, affumicate e gessose siano i più richiesti del mercato in questo momento. Fa tanta sensazione rammentarla, ma che cosa realmente intendiamo per mineralità in un vino? E soprattutto, ha davvero qualche collegamento con il luogo e il terreno di produzione oppure è un falso mito?

LA SCIENZA DICE NO

Partiamo da quel che dice la ricerca scientifica. Anche se spesso ci aiuta a descrivere un vino, in questo caso sembra tagliare la gambe a molta retorica e poesia. Diversi esperimenti di fisiologia vegetale sulla vite hanno infatti dimostrato che la presenza di alcuni minerali in concentrazioni anche alte nel suolo può portare a una assunzione maggiore da parte delle radici delle piante, ma ciò non implica che i minerali siano trasferiti negli acini e nelle parti della pianta direttamente collegate alla formazione degli aromi. E anche se riuscissero a entrare nel vino direttamente, resta il fatto che di per sé i minerali, a meno che non contengano zolfo, non hanno profumi particolari. Quindi la maggior parte dei cosiddetti aromi “minerali”, come quello di grafite, di calcare e altri sono delle suggestioni legate molto probabilmente alla nota leggermente affumicata dovuta alla riduzione del vino stesso. Parliamo in altre parole del fenomeno chimico che interviene sui profumi dei vini bianchi. I quali, in genere, vengono tenuti il più possibile lontani dall’ossigeno che ne brucerebbe profumi e aromi freschi e fruttati. Si può parlare di vini con sentori minerali propriamente detti solo nel caso ci siano dei suoli vulcanici, e in Italia ne abbiamo parecchi – dal Soave nel Veneto all’Etna in Sicilia –, altri che abbiano zolfo nel sottosuolo (come nel caso del Greco di Tufo e altri vini dall’Irpinia), alcuni che riportano sensazioni iodate derivanti dall’aerosol marino e, infine, alcuni che abbiano le note di idrocarburo nel profilo aromatico dell’uva (come il Riesling, soprattutto tedesco). Negli altri casi usare il termine minerale è un’esagerazione. Vediamo ora alcuni vini, tra l’altro perfetti per i prossimi mesi caldi, che in diverse occasioni vengono definiti “minerali”.

MARE E IODIO

Le sensazioni inebrianti e sapide che il mare riesce a conferire ai vini sono tra le più seducenti che un nettare possa offrire. Del resto, come diceva Isak Dinesen, «Tutti i nostri problemi si risolvono con l’acqua salata: lacrime, sudore, mare». Cominciamo dal distretto di Marsala, dove l’influsso nel mare – fosse anche solo per il fatto che molte delle cantine si trovano a pochi metri dalla spiaggia – si fa sentire maggiormente. Anche i prodotti di Marco de Bartoli, sia rossi che bianchi secchi, dimostrano che il mare vicino si sente. Il bianco Grappoli del Grillo sa di menta, timo, zagara e poi tanto sale con bocca stupenda ricca e mediterranea, ancora meglio se servito su cous cous alla marsalese. Pure la variante “sparkling” del Grillo, denominato Terza Via è salino e particolare con note di pesca e rosmarino, iodio e minerale, bocca originale e ricchissima con un equilibrio mediterraneo peculiare e seducente, da esaltare su pane nero di Castelvetrano e ricci di mare. Un esempio di mineralità rossa è il Rosso di Marco, ricavato da uve pignatello dal carattere rustico e fruttato selvatico rosso, bocca contestata sapida e fresca con belle note di lampone a chiudere. Se invece volete riscoprire il Marsala, potete cominciare con l’assaggiare il Marsala Cinque anni Superiore Riserva di Caruso e Minini, con un filo di volatile all’inizio, ma con bocca centrata e spedita, piacevole di frutta secca e elicriso, discreta persistenza e richiami al mare continui, da provare su salmone marinato al marsala e cipolla. Per un apoteosi di storia e salsedine, provate a tuffarvi nell’immortale capolavoro Aegusa Florio Marsala 1941 Superiore Riserva semi secco (solo 400 bottiglie, a 980 euro l’una…), un tuffo tra aromi di senape, goudron, liquirizia, pepe, confettura di prugna, iodio e salmastro, bocca incredibile fresca e avventurosa, polvere da sparo, cumino. La sua migliore versione? Quella del 1994, con sottobosco, resina e miele di castagno, bocca polposa e secca, e gran finale di frutta scura, pepe e orzo. Per spendere qualcosa di meno, pur facendosi una grande idea di cosa sia il Marsala “da tavola”, in casa Florio provate il Baglio Florio Marsala doc vergine 1998, ambrato e ricco, profumato di caffè, senape e carrube, fico e dattero, nocelle e cumino, cangiante e sorprendente per via della bocca secca e diretta, sapidissima.

CI SONO GLI ITALIANI…

Un altro grande vitigno bianco che secondo i suoi descrittori lascia sentire della mineralità è lo chardonnay. Ma in questo caso si parla di mineralità solo in particolari territori e climi, dove il fruttato e le note tropicali non vengano esaltate. In tanti chardonnay italiani infatti il lato fruttato e floreale è predominante, mentre in certe zone il suo carattere cambia e si fa più sfumato e particolare. Per esempio, succede in Piemonte con il celeberrimo Gaja e Rey di Gaja appunto, o in casa Boroli con il suo Bel Amì, bianco di razza che dà il meglio, come tutti i grandi, dopo qualche anno in bottiglia. Oppure pensiamo all’Alto Adige, con il grande esempio del Lowëngang, chardonnay da vecchie vigne dal 2005 in bio-dinamica. Eccezionali le annate 2000 e 2002 e in prospettiva le recenti 2009 e 2010, uscite di recente. Giocando in casa, in Piemonte, il campione di mineralità non può che essere il vitigno timorasso, che dà luogo alla denominazione Derthona (antico nome della città di Tortoni, attorno alla quale il vitigno dà il suo meglio), sia nella versione iconica Costa del Vento di Walter Massa che nelle versioni più accessibili, ma sempre rigorose, di Terralba (Stato), Pomodolce, La Colombera (Montino) e Claudio Mariotto e il suo Pitasso. Ma il minerale è proprio anche dei suoli ricchi di tufo. Basti pensare alla zona di Pitigliano in Toscana, antichissima patria di grandi vini bianchi da sempre definiti “saporiti”, che oggi mostrano il loro potenziale grazie a Montauto, sia che usino malvasia e vermentino sia che piantino il sauvignon, che in questa zona cambia la sua classica espressività di bosso, pipì di gatto e peperone come in altre zone celebri francesi. Per capirlo, cercate l’Enos di Montauto o il sauvignon “Alture” di Antonio Camilo. C’è poi la zona di Montecarlo, vicino Lucca. La patria di quel geniaccio di Gino Carmignani, che si adopera per farne conoscere i vini. È anche quella della Fattoria del Buonamico, azienda storica (il suo fu l’unico vino servito alle nozze di Maria Josè del Belgio con Umberto II di Savoia, nel lontanto 8 gennaio 1930), che ancora oggi continua a produrre un grande bianco da uve trebbiano toscano, pinot bianco, sauvignon, semillon e roussanne. Con un finale splendido, sapido gessoso con ritorni agrumati e chiusura mandorlata.Territori particolari, incredibilmente adatti a esaltare il carattere salato di alcuni vini sono l’Umbria, terra di grandi vini bianchi dai tempi dei romani, la zona “sulfurea” dell’Irpinia con fiano e falanghina, e il Soave, dove non a caso ogni anno si tiene “Vulcania”, un forum che parla appunto di vini da zone vulcaniche, come lo era il Soave qualche millennio e come lo è ancora oggi l’Etna.Durante lo scorso Vinitaly abbiamo assistito al grandissimo successo di Marco Caprai, che ha presentato l’ambiziosa Cuvèe Secrete, un blend misterioso (ma di uve locali) che ha conquistato il pubblico intervenuto: un vino fatto di tanti elementi aromatici disposti a mosaico, dai contorni sfocati ma terribilmente affascinanti, che suscita emozioni più che stuzzicare profumi, ma che quasi tutti hanno catalogato come estremamente sapido, roccioso e minerale a suggellarne il carattere affascinante e sfuggente. La vera e propria fucina e miniera di vini “minerali”, però, soprattutto negli ultimi tre-quattro anni è l’Etna. Per l’annata 2012 i vini da tenere d’occhio sono: Cottanera, affumicato e sapido con ricordi di pesca bianca e fiore della vite, Nerina di Girolamo Russo, dolce e sinuoso, note di mirabelle e pesca, bocca soffice, sorniona; Pietradolce di Archineri, dal naso di robinia, gelsomino, pesca e gesso e bocca ficcante, sassosa e balsamica; Contrada Arcurìa Graci, bocca di pompelmo salvia e sale; Tasca d’Almerita Buonora, con sambuco e fiore di pesco, bocca dai toni fumè; e l’incredibile vecchia vigna Chianta di Ciro Biondi, un vulcano bianco in miniatura nel vostro bicchiere.

.…E I FRANCESI

Continuando a parlare di sauvignon, ma muovendosi Oltralpe, una delle zone più famose è il Sancerre. Qui dovreste assaggiare il Clos la Néore 2010 di Edmond e sua figlia Anne Vatan, che Francesco Amodeo definisce «acqua di ghiacciaio sciolta mista a pompelmo rosa e fiori bianchi», o provare nella zona vicino a Perpignan, in pratica un’isola francese in territorio spagnolo, nel paesino di Calce, dove i vini sono gessosi e mediterranei, godendo al contempo di una luce accecante e meravigliosa, suoli di calcare, marna grigia e roccia vicinissima alle radici. Ci sono poi nettari sorprendenti come il VDP Cotes Catalanes Coume Gineste 2008 di Domaine Gauby, sospeso tra muschio e mughetto, biancospino e rosa, incenso ed erbe mediterranee poi anche la canfora e la mirra. Bocca acidula e diretta dal bel corpo deciso, miele di eucalipto, pesca bianca, lychees, e un finale che alterna citrino e pietroso in maniera originale e entusiasmante. Potevamo chiudere senza nominare la zona dove la sensazione sapida, iodata e minerale a volte è così intensa da risultare per qualcuno quasi fastidiosa? Parliamo dello champagne e soprattutto della sua Cotes de Blanc, il cuore della produzione dello chardonnay su suolo gessoso, che pare proprio di annusare appena bagnato in qualche bicchiere. Provare per credere: assaggiate lo Champagne Extra Brut Quartz Louis Barthélémy, dove anche solo un 50% di chardonnay è capace di dare un naso bianco e floreale, di pera mirabelle e agrumi, e una bocca saporosa e tagliente con mineralità sopra le righe e tanta classe. Oppure, se avete un discreto budget, provate il Noble Cuvèe di Lanson, maison ingiustamente sottovalutata che sa offrire perle rare come l’Extra Age Champagne, basato su tre grandissimi millesimi come 2000, 2002 e 2004. O un monumento all’acidità e al gusto salato dello champagne come il Noble Cuvèe. Uno dei migliori vini della regione specie in annate eccezionali come la 1988, ancora oggi viva e scal-iante grazie anche alla sua, lo ripetiamo per la centesima volta, intensa mineralità.