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Gusto

Dalla strada alle stelle

La riscoperta dello street food ha conquistato critici gastronomici, chef stellati e platee tv. Tra lampredotti e “pani ca’ meusa”, così la microcucina entra nel grande business della ristorazione

Supplì, pani ca’ meusa, lampredotto, trippa, porchetta, stigghiola, cuppi, gofri, cicheti, frico, gnummareddi, erbazzone, folpeti… Sembra la pozione di una qualche fattucchiera impazzita, e invece sono gli “ingredienti” (alcuni, tra le migliaia nascosti in ogni angolo d’Italia) di un fenomeno esplosivo che sta ribaltando le regole – economiche, oltre che caloriche – della ristorazione. Dopo l’era dei grandi chef dei menù patinati, belli e inaccessibili, siamo entrati nell’era dello street food, termine glamour e global per indicare quei localini presenti da sempre, ma mai finiti sotto i riflettori, che “sfamano” ogni giorno miliardi di persone in Italia e nel mondo (secondo la Fao, sono 2,5 miliardi gli individui che ogni giorno nel mondo consumano un pasto per strada).

LO STREET FOOD ALL’ESTERO

Rosticcerie, piadinerie, fornelli pronti, griglie più o meno pericolanti accese ai margini dei mercati, baracchini e Apecar con annessa cucina dove bollono polpi, trippe e interiora, arrostiscono porchette e friggono teste di pollo, servite senza troppe formalità in cartocci di carta oleata, o infarcendo panini di ogni forma e dimensione. Cibi tutti assolutamente made in Italy, tramandati di generazione in generazione, spesso ad alto-altissimo concentrato di calorie (strutto e olio da frittura regnano sovrani) e tutti rigorosamente on the road. Se, infatti, non c’è, percorrendo l’Italia da Nord a Sud, nessuna ricetta che detti le condizioni immutabili per fare uno sfincione certificato o una pizza fritta doc, c’è un’unica legge che regola questo mondo: qualsiasi sia la prelibatezza scelta, deve poter essere tenuta in una mano e – facendo attenzione alla macchia sul pantalone o sulla camicia – consumata possibilmente in piedi, al massimo appoggiati a uno strapuntino (in questo caso, attenti ai gomiti della giacca). Un fenomeno di cui si è accorta la Tv, e ci si è buttata in grande stile, con il global chef Anthony Bourdain a fare da apripista, mettendosi in strada e raccontando questo mondo per la Cnn nel docu-reality dal titolo Parts Unknown (“parti sconosciute” un nome che, trattandosi di roba da ingerire, un po’ inquieta…) e che ha avuto diversi epigoni anche in Italia, dall’Unti e bisunti dello chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, per DMax, a Street Food Heroes prodotto da Italia 2, fino a Street food. Un boccone e via e Eat Street su NatGeo Adventure.

IL MASTERCHEF, LA NOSTRA INTERVISTA AD ALESSANDRO BORGHESE

Ma si tratta di moda o realtà? «Premessa, il cibo da strada, in quanto tale, è sempre esistito», osserva Luca Iaccarino, scrittore Lonely Planet e autore di Cibo di strada, una guida molto ricca di luoghi, cibi e scoperte gastronomiche on the road. «La sua diffusione come tendenza è un processo che ha preso il via qualche anno fa, dal 2008, in coincidenza con la crisi. Da un lato è cresciuta, da parte dei consumatori, la ricerca di soluzioni veloci, ma comunque non banali, per mangiare qualcosa fuori, e magari in compagnia, senza spendere un capitale. Dall’altro, lo stesso mondo della ristorazione ha cominciato a riscoprire formule più light per proporre cibi curiosi, ma nel contempo abbattere i costi». E così l’alta cucina ha incontrato i baracchini e le friggitorie di strada, e la miscela vincente è diventata tendenza. A far da comun denominatore «la povertà degli ingredienti e delle materie prime», spiega Iaccarino: «Lo street food è il regno del cosiddetto “quinto quarto”, e cioè delle frattaglie, e della frittura, perché è il mezzo più rapido per cuocere. Di sicuro non è una dieta per signorine, insomma».

IL BUSINESS DELLA PIZZETTA

«L’errore in cui non bisogna cadere è confondere lo street food con il fast food. Anche se il mangiare di strada si consuma in fretta, in piedi, è un cibo “lento”, nel senso che è frutto di una lunga tradizione, e conserva un forte legame con il territorio, con le tradizioni locali, mentre il fast food uniforma, appiattisce, standardizza», spiega Gigi Padovani, giornalista e scrittore, che insieme alla moglie Clara, critica gastronomica, è autore di Street food all’italiana: «Il ritorno di interesse per lo street food si traduce anche in un rilancio importante della gastronomia, e quindi in parte dell’economia, di territorio». Basti pensare che le sole piadine in Romagna sono protagoniste di un giro d’affari da 130 milioni di euro l’anno, tutti in microesercizi commerciali a conduzione familiare. Il lato B della cucina italiana, insomma, quello dove il fornello viene letteralmente messo in piazza e non c’è mediazione tra il cuoco (ma guai a chiamare cuoco un “trippaio” fiorentino, per esempio, o un porchettaro di Ariccia, orgogliosi del proprio nome popolano) e il consumatore, sta vivendo una fiorente giovinezza. Allargando anche i propri orizzonti di mercato. Se ne è accorto per esempio il colosso Eataly, la cui filosofia si sposa ottimamente con le eccellenze del mangiar di strada, che nel punto vendita storico torinese così come nel nuovo megastore di Roma Ostiense ha ospitato Street Eataly, evento di contatto tra i produttori di alimenti “presidio” e cuochi di strada. Ma anche una realtà extra settore come Feltrinelli, attratta dal business del cibo, ha rilevato dalla storica famiglia palermitana dei Conticiello il 95% delle quote di una delle più celebri “insegne” dello street food, L’Antica Focacceria San Francesco di Palermo, diventato il brand e il garante gastronomico dei corner ristorazione all’interno degli store Red.

UNA SFIDA CHE SEDUCE GLI CHEF

E se da una parte tanti fino a oggi anonimi baracchinai e localini storici che da generazioni campano di consumo al bancone sono diventati delle celebrità, invitati a festival e inseriti in guide internazionali, si assiste anche al fenomeno inverso. Grandi chef che scendono dall’empireo di ristoranti blasonati si mettono alla prova, ma anche si divertono, sperimentando con ricette di strada. Portando la propria cultura dell’ingrediente e delle tecniche di lavorazione e accostamento al livello del marciapiede, come fa con la sua roulotte-ristorante il due stelle Michelin Mauro Uliassi (LA NOSTRA INTERVISTA)

O come si diverte a fare Davide Scabin, chef stellato del Combal.zero di Rivoli, che in occasione dell’ultima edizione di Identità golose ha lanciato il suo “fusillone wrap”, una piadina chiusa “a busta” con dentro fusilli all’arrabbiata e insalata «che rappresenta», dice, «la risposta italiana e di strada alle tortillas messicane, alla pita greca e al kebab turco». Solo uno sfizio, questo di inventarsi cucina da strada, oppure un campo interessante di sperimentazione per uno chef? «Attraverso lo street food porti innovazione, con il fusillone wrap, per esempio, abbiamo aggiunto qualcosa che non c’era al modo di percepire la golosità della pasta: difficilmente mangi la pastasciutta mordendola, puoi fare una inforchettata che ti riempie la bocca, ma non potrai mai addentarla. Con la piada, invece, provi questa sensazione nuova». Esperimenti che aggiungono anche premi al palmarés degli chef di grido, come il riconoscimento di “panino dell’anno”, assegnato dalla Guida del Gambero Rosso al pastrami di lingua proposto da Cristina Bowerman, stella Michelin del Glass Hostaria di Roma, o il premio speciale Street Food da chef che sempre il Gambero Rosso ha riconosciuto a Valeria Piccini, due stelle del ristorante Caino di Montemarano, che si è cimentata in un coraggioso tris di trippe e lampredotto. Maniaco della scoperta, viuzza per viuzza, del cibo da strada, è poi Massimo Bottura, superstar della Osteria Francescana di Modena (addirittura tre le stelle Michelin in questo caso), che lo scorso luglio ha fatto da testimonial on the road all’iniziativa Rimini Street Food, il progetto lanciato dalla cittadina romagnola per mappare tutti i trabiccoli e le microcucine dove si realizza la vera regina di strada di questa terra, la piadina. Come ha sintetizzato Gualtiero Marchesi, “il” padre della ristorazione italiana: «Siamo un Paese fusion, più fusion di noi non c’è nessuno. Dalla Sicilia al Piemonte abbiamo una serie infinita di cucine microclimatiche, e ciascuna di queste cucine ha delle specialità nate per il consumo di strada». E il bello è che, per gustarle, non serve la cravatta!

QUATTRO TITOLI PER SCOPRIRE IL POSTO GIUSTO

LE GUIDE DEL GAMBERO ROSSO STREET FOOD196 pag. 6,50 euroIl gusto autentico del cibo di strada italiano Gambero Rosso

CIBO DI STRADALuca Iaccarino – Mondadori180 pag. 14,90 euroIl meglio dello street food in Italia

STREET FOOD ALL’ITALIANAClara e Gigi Padovani – Giunti Editore192 pag. 14,90 euroIl cibo di strada da leccarsi le dita

STREET FOODAA.VV., con prefazione di Carlo Petrini ed. Lonely Planet224 pag. 19,50 euroIl cibo di strada migliore del mondo. Dove trovarlo, come farlo