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Lavoro

Stipendi, bonus & Co: la variabile del successo

La recessione si allontana, per i manager tornano i premi aziendali. Ma la crisi ha cambiato il modo di guardare ai bilanci, dicono direttori del personale e cacciatori di teste: chi sbaglia paga, ma la felicità anche di più

Da zero a trenta. Per cento. È lo stipendio extra per i dirigenti che raggiungono gli obiettivi. Zero se falliscono, trenta se sanno volare. Una variabile che può essere pagata cash o in stock option ma che, in certi casi, potrebbe anche diventare negativa: il manager che buca il risultato ci rimette di tasca propria. È la nuova legge del variabile: siamo lontani dall’abbuffata degli anni 2000, ma anche a distanza di sicurezza dalla crisi che negli anni scorsi ha bloccato bonus e una tantum per moltissimi dirigenti. Ritorno alla normalità? Non proprio.

Sono ancora molte, infatti, le questioni aperte: per esempio, dopo gli scandali delle super retribuzioni ai manager di aziende in fallimento, c’è chi vorrebbe introdurre clausole penalizzanti per chi non fa il proprio lavoro. Ma funzionerebbe in Italia? E se il bonus fosse legato alla “felicità interna lorda”, invece che alle performance delle vendite, questo aiuterebbe a lavorare meglio e di più, con ricadute positive anche sul business? Su tutti, l’interrogativo più grande resta sempre uno: come premiare bene chi fa guadagnare l’azienda? Lo abbiamo chiesto a cacciatori di teste e responsabili del personale: le vecchie regole ormai non funzionano più, bisogna cambiarle. Gli stipendi di domani saranno calcolati e versati in modo totalmente diverso da oggi. Con sempre maggiore attenzione alla felicità di manager, azienda e clienti. Prepariamoci.

Gestire la diversità

Voto in condotta

GUARDARE LONTANO «Oggi si è tornati a uno stato di relativa normalità dopo la forte contrazione in termini numerici dei dirigenti e il blocco di bonus e una tantum per molti di loro», dice Paolo Iacci, presidente di Eca Italia e vicepresidente nazionale dell’Associazione italiana direttori del personale (Aidp), «ma rimangono situazioni anomale: soffrono ancora i responsabili di secondo livello e più in generale i quadri e si è ulteriormente ampliata la forbice tra lo stipendio dei vertici e quello dell’impiegato alla base della scala gerarchica. Tutti elementi negativi, perché indeboliscono il senso di appartenenza del lavoratore, sempre più lontano dall’azienda quando non ha la sensazione che siano applicati criteri di trasparenza ed equità». Che fare allora? Una prima risposta potrebbe essere quella di legare la parte variabile dello stipendio non solo ai risultati dell’anno, ma anche a quelli di medio e lungo periodo. «È sicuramente una evoluzione positiva», continua Iacci, «perché consente di correggere alcune storture del sistema. In molti casi, infatti, i bonus di una certa consistenza spingevano a concentrarsi sull’ottenimento del risultato immediato senza considerare che alcune azioni hanno effetti positivo solo sugli anni successivi». Una formula che piace anche agli headhunter.

TRA I NUOVI PARAMETRI CI SONO

I RISULTATI A LUNGO TERMINE

L’IMPEGNO IN FAVORE DELLA

SOSTENIBILITÀ DEL BUSINESS

«Spalmare gli incentivi su tre anni invece che su uno solo», dice Francesco Tamagni, General Manager di Intermedia Selection, società di ricerca e selezione di professional e middle management, «ha molti effetti positivi: innanzitutto alleggerisce la troppa pressione sul breve, spesso ingiustificata, e regala più tempo e serenità al lavoro dei dirigenti, che si sentono più coinvolti e fidelizzati e quindi fanno meglio il loro mestiere». La formula è semplice e pare funzionare. «Mettiamo che il vostro variabile per il 2016 valga 10 euro», prova a semplificare Simonetta Cavasin, amministratore delegato di OD&M Consulting, la società di Gi Group specializzata in Hr Consulting, «e che alla fine dell’anno raggiungiate gli obiettivi ma che l’azienda, invece di pagarvi tutto il bonus, versi solo solo cinque e accantoni gli altri cinque con la promessa che, se le cose andranno bene anche l’anno dopo, quei cinque diventeranno il doppio. È una scommessa al rialzo che fa scattare un potente meccanismo di ingaggio e di motivazione, che lega il dirigente alla società in un vincolo virtuoso e costante». Si tratta però di un trend che vale più per i ruoli apicali che non per i dirigenti operativi. «Amministratori delegati e prime linee», continua Cavasin, «hanno un mix di variabile calcolato sul breve e sul lungo e retribuito sempre più spesso cash che non in stock option, mentre per tutti gli altri contratti dirigenziali i premi sono ancora calcolati sull’anno, ma è una condizione necessaria data la volatilità dei mercati. E comunque è sfidante».

TROPPE GARANZIE Cosa succede invece quando il dirigente non solo non raggiunge i risultati, ma danneggia il business dell’azienda? La cronaca porta alla ribalta alcuni casi clamorosi, dall’ultimo dieselgate di Volkswagen ai disastri dell’Ilva e di Thyssen. Se il manager ha agito male e ha procurato danni, deve risarcire. Per fortuna esiste un paracadute: l’assicurazione inclusa nel contratto d’assunzione o stipulata dal manager in privato. Casi eccezionali a parte, in molti si chiedono se sia possibile applicare il taglio della retribuzione dei manager che remano contro. «Lo si fa solo in situazioni critiche», dice Tamagni di Intermedia Selection, «per il resto è molto difficile toccare al ribasso il fisso in busta paga». Più facile che accada all’estero. «Succede più di frequente nelle multinazionali e soprattutto nelle società finanziarie, dove esiste una specifica clausola di claw-back e prevede la possibilità da parte dell’azienda di chiedere indietro il bonus già erogato, in toto o in parte, qualora i risultati ottenuti dal manager vengano azzerati per effetto della sua condotta», aggiunge Simonetta Cavasin di OD&M Consulting. Una clausola severa, spesso invocata in casi estremi, come quello di Jerome Kerviel, il broker accusato dai vertici di Société Générale di aver causato un buco di quasi cinque miliardi di euro. «In Italia non siamo ancora abituati a ragionare in termini di clausole penalizzanti », è il parere del presidente dell’Associazione direttori del personale, Paolo Citterio, «ma ci sono e vengono anche applicate, sempre sulla base dei contratti e con l’accordo dei sindacati ».

PREMIARE IL BENESSERE Sul versante opposto della colpa, ecco spuntare invece i premi per i più buoni. Sia chiaro: essere buoni in questo caso significa lavorare tutto l’anno non solo per il profitto dell’impresa ma anche, direttamente o in direttamente, per contribuire alla sostenibilità del business, per esempio migliorando la gestione degli scarti di produzioni o riducendo le emissioni di gas serra. In una sigla: Bes, “benessere equo e sostenibile”. Secondo questa scuola di pensiero, si dovrebbero introdurre tra gli indicatori di performance per la premialità, accanto agli utili, anche un nuovo indicatore di sostenibilità ambientale e sociale, che tenga in considerazione la riduzione degli sprechi e dell’inquinamento, certo, ma anche il clima di lavoro, la felicità dei dipendenti, la libertà di gestire il difficile rapporto casa-ufficio. Lo spirito sarebbe quello di lavorare non solo per gli shareholders, cioè chi possiede l’azienda, ma per tutti gli stakeholders: lavoratori, clienti, fornitori, comunità, territorio. Utopia? Uno dei primi ad intuire che i clienti avrebbero premiato le aziende buone è stato il guru del marketing Philip Kotler, convinto che i consumatori già oggi tendano a comprare beni e servizi da società socialmente responsabili, e che a parità di prezzo e di performance scelgano il prodotto che fa anche del bene. Ecco allora che questo entra di prepotenza fra gli obiettivi aziendali: fare del bene. Dentro e fuori.

«Sempre più spesso il clima che si respira nell’organizzazione o la motivazione dei propri collaboratori è diventato un obiettivo manageriale in molti gruppi», torna sul tema Paolo Iacci, «ed è quindi legato alla premialità. Ovviamente parlare di felicità interna lorda in un’azienda non è sempre facile, occorre trovare degli indicatori o, in ogni modo, incanalare la soggettività estemporanea dei capi verso un minimo comun denominatore. Non di meno, credo sia opportuno sforzarsi in quella direzione perché il successo di un’impresa non si può misurare solo guardando la bottom line». Fra le tante difficoltà, pare di capire parlando con manager, headhunter e direttori del personale, ci sarebbe proprio quella di quantificare gli obiettivi.

«Il raggiungimento degli obiettivi legati al benessere e alla sostenibilità dell’impresa», è l’analisi di Francesca Contardi, Managing Director di Page Personnel, «è solitamente affidato ai vertici dell’azienda e non ai dipendenti, che difficilmente sono responsabili delle scelte ambientali o etiche dell’impresa in cui lavorano. Dall’altro lato, invece, non sono pochi i top manager che ricevono variabili legati ai progressi dell’azienda che guidano in quest’ottica. Si tratta, comunque, di obiettivi difficili da generalizzare essendo i settori molti diversi tra loro». Insomma, le performance dei manager oggi non si giudicano più come una volta e alcune best practice stanno addirittura mettendo in discussione i vecchi modelli di calcolo del premio variabile. Che dire infatti di quelle società che puntano tutta l’attenzione sulla motivazione dei dipendenti? È lo spirito che regna in molte multinazionali, da Microsoft a Cisco, da Google a Sas, Eli Lilly e Sanofi, sempre in testa alle classifiche dei migliori posti dove lavorare, ma anche di tante realtà italiane – piccole e medie – dove l’accento, e il premio, va al benessere dei propri uomini.

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