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Lavoro

Lo strano mondo dei raccomandati

I manager li temono, i direttori del personale non li sopportano, i bravi li odiano. Ecco come difendersi dall’invasione di chi ha un santo in paradiso. Parlano i guru della meritocrazia: Tatò, Celli, Abravanel e Crapelli

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Vittime dei soliti raccomandati, vendicatevi. Lo hanno fatto Irma, Max e Samuele, che dopo dieci anni di lauree e specializzazioni si sono visti soffiare il posto da chi non lo meritava ma era parente (o amante) di… Succede nell’ultimo film di Giambattista Avellino, C’è chi dice no. «Ma anche nella vita reale i giovani dovrebbero ribellarsi a questo sistema», racconta a Business People Franco Tatò, che di canditati con la spintarella ne ha visti arrivare tanti quando era in Enel, Mondadori o Wind, e ha sempre incaricato l’ufficio del personale di dare a tutti, senza distinzione di padrino, la stessa risposta standard. “Una tecnica infallibile”. Si trattava di una lettera uguale per tutti, mandata dall’ufficio del personale nella quale si diceva che l’azienda aveva valutato positivamente il candidato, che ne apprezzava doti e qualità, che era sicura del suo successo, ma alla fine c’era l’immancabile “no grazie” molto ben mascherato. Nel film accade, però, qualcosa di inconsueto: da vittime di parentopoli ci si trasforma in paladini della meritocrazia con i tre amici, Irma, Max e Samuele, che prendono di mira chi gli ha soffiato il posto con piccole vendette quotidiane, fino al punto di creare un vero movimento, i Pirati del Merito. «La raccomandazione è un furto di merito che danneggia l’individuo e il paese», ci racconta Fabio Bonifacci, che ha scritto soggetto e sceneggiatura del film, «ma anche un furto di vita, perché i giovani che si vedono superare sono costretti a rimandare di anni la costruzione del loro futuro, perdono dignità e stima in se stessi, convincendosi di non valere nulla, quando invece è vero il contrario». Per Bonifacci la piaga della raccomandazione è tra le cause della mancata mobilità sociale. «Viviamo in un paese di caste, rigido come nel medioevo». Ma è sufficiente la ribellione personale per sconfiggere un malcostume generalizzato? «Sarebbe un buon inizio», ci scherza Tatò, «perché le cose stanno peggiorando: il trend delle raccomandazioni è in aumento, i posti di lavoro diminuiscono e quei pochi rischiano di andare ai più furbi, secondo la regola perversa che privilegia la qualità dell’appoggio politico alla professionalità». Per Tatò è una questione di cultura, un’erbaccia difficile da estirpare. «Quello che vedo in Italia non succede all’estero e neanche nelle multinazionali che lavorano da noi. Con un paradosso: anche chi avrebbe tutte le carte in regola per ottenere un posto, spesso si fa raccomandare, come fosse una sicurezza in più. La vera colpa allora è di chi li assume». «Ma lo sa che in America un posto su due lo si ottiene con una referenza, che è la versione positiva della nostra raccomandazione?», spiega Roger Abravanel, guru della meritocrazia e consulente di McKinsey nelle più importanti aziende, da Bnl a Luxottica. «La differenza tra noi e loro è semplice: in Usa il mentore scrive bene solo di chi ha stima, per indirizzarlo verso un posto che ben conosce. In Italia il contrario: il politico o il barone universitario raccomandano chiunque per qualunque posizione. E allora il valore positivo della segnalazione si ribalta». Capiamoci: perché Del Piero non raccomanderebbe mai suo cugino per giocare alla destra nella Juve? Semplice: la Juve andrebbe in B. Non dovrebbe essere lo stesso nel mondo del business? Il fatto è che molte, troppe aziende non giocano con le stesse regole delle altre. «Ci sono tante Pmi che sopravvivono solo perchè evadono le tasse, non fanno innovazione e non investono». Ecco la colpa della concorrenza sleale: si ferma l’industria, la crescita, il paese. E i cervelli scappano all’estero. Servirebbero nuove regole. E servirebbero fin dalla scuola. «Di fronte alle sfide del mercato globale», sottolinea Abravanel, «occorre un forte ruolo del sistema educativo». Perché il male comincia fin da qui. Un esempio? All’ultimo esame di maturità su 4.037 diplomati con 100 e lode, quelli del Sud e delle isole sono stati il doppio di quelli del nord. Forse saranno stati anche più bravi, ma una tale sproporzione fa sorgere il sospetto che non si siano applicati gli stessi metodi di giudizio. «E allora la domanda è una sola», dice Abravanel: «chi sono davvero i più bravi»? D’altra parte sono le aziende le prime che dovrebbero riflettere sulle conseguenze di assumere i raccomandati. «Così facendo ci si porta in casa dei mediocri», spiega il rettore della Luiss Pier Luigi Celli che attacca duramente l’assenza di meritocrazia. «Quando un ragazzo trova lavoro grazie alla famiglia, difficilmente è un fuoriclasse. E un mediocre che si siede alla sua scrivania, sapete che fa? Punta a quella del suo capo e si convince di poter fare carriera. Alla fine ci riesce. Che vantaggio sarebbe questo, per l’azienda? Nessuno, solo un danno». Danno per l’impresa e per il Paese, che diventa meno competitivo rispetto agli altri. «Ogni inserimento di soggetti non competenti toglie la possibilità di assumere persone qualificate e questo genera una spirale negativa», dice a Business People Roberto Crapelli, a.d. di Roland Berger Italia. «Che fare? Vale il detto caro agli anglosassoni “mediocrity generates mediocrity”, quindi la soluzione è di perseguire la meritocrazia in maniera rigorosa favorendo anche il potenziale dei giovani rispetto all’esperienza consolidata. Infatti sarà sempre di più il mercato a respingere e penalizzare le aziende che non basano il loro sviluppo sulle capacità e sulle competenze. In generale comunque si nota un trend di miglioramento anche se le resistenze alla meritocrazia sono sempre più forti da parte di chi gode di posizione di rendita professionale». E fino a quando la situazione non cambierà, il candidato che ha un santo in paradiso resterà l’incubo non solo di chi è più bravo di lui, ma anche di chi lo deve esaminare. E prima o poi capita a tutti, direttori del personale e imprenditori, di dover affrontare quello con la lettera del politico di turno. Le tecniche per dribblare la spintarella non mancano. «Quando ricevo una telefonata di raccomandazioni», ride Celli, «mi dico: un colloquio non si nega nessuno. Ma poi non lo assumo». Ma esiste una tecnica per difendersi da chi soffia il posto che non merita? Come reagire quando anzianità, curriculum ed esperienza contano meno di una buona parola dall’alto? «L’errore più grande è di scegliere la via facile e andare a bussare alla porta di chi potrebbe aiutarvi» sostiene Abravanel che, dopo il successo del libro Meritocrazia è ora in libreria con Regole («lo scriva, non è pubblicità, i ricavi di entrambi i lavori vanno tutti in beneficenza»). «Mai scendere a compromessi, meglio imboccare la strada in salita e continuare a darsi da fare, con le proprie gambe, puntando alto, a quelle aziende dove vige il criterio della meritocrazia».

Così i bravi se ne vannoDa una ricerca risulta che il 73% di chi è andato all’estero non vuole tornareIn Italia i finanziamenti alla ricerca vengono assegnati senza criteri meritocratici. La pensa così il 90% degli oltre mille ricercatori che ora lavorano fra Stati Uniti, Inghilterra e Spagna, intervistati nell’ambito dello studio Italian researchers abroad. E il 73% di loro, tutti tra i 25 e i 40 anni, non tornerebbe mai in Italia. Cosa dicono invece quelli che hanno deciso di restare? Su un campione di 3575 ricercatori, sia assunti che precari, l’80% sostiene di essere rimasto per la famiglia, pur essendo tentato di partire perché all’estero le competenze vengono meglio valorizzate, si guadagna di più e ci sono più possibilità di trovare lavoro, anche senza raccomandazioni. Secondo lo studio, sono più inclini ad andare via i giovani rispetto ai ricercatori anziani, e questo non stupisce. «Ma se chiediamo ai ricercatori che lavorano qui quale sia la loro propensione a lasciare l’Italia, la risposta è comunque prudente», ha detto il professor Benedetto Torrisi durante la presentazione dei risultati della ricerca all’Università di Catania. Forse si attendono gli effetti della riforma del sistema universitario varata dal ministro Gelmini, oppure è la situazione economica internazionale che non invoglia a partire. «Fatto sta che chi va via non ritorna», ha detto Torrisi, «mentre chi resta attende tempi migliori».

Ma c’è chi dice no? Sì, però è un film…

Cosa succede quando tre meritevoli si ribellano al sistemaTre ex compagni di scuola si ritrovano dopo vent’anni e si rendono conto che un nemico comune li perseguita: i raccomandati. Max (Luca Argentero) è un giornalista di talento in un quotidiano locale che per arrotondare è costretto a scrivere sulle più improbabili riviste di settore. Giunto a un passo dalla tanto agognata assunzione viene scalzato dalla figlia di un famoso scrittore. Irma (Paola Cortellesi) pur essendo uno dei dottori più stimati dell’ospedale, vive grazie alle borse di studio, e proprio quando sta per ottenere il contratto le viene preferita la nuova fidanzata del primario. Samuele (Paolo Ruffini), infine, è una specie di genio del diritto penale, e dopo anni passati a fare da assistente ad un barone universitario è in procinto di vincere un concorso per ricercatore. Ma anche in questo caso il posto gli verrà soffiato dal genero inconcludente del barone. Dieci anni di esami, lauree e specializzazioni sembrano non essere serviti a niente, per questo i tre amici decidono di ribellarsi al sistema. E lo fanno mettendo in atto piccole vendette e molestie quotidiane, ma prendendo di mira ciascuno il raccomandato dell’altro, così che nessuno potrà risalire a loro. All’inizio è quasi un gioco, poi il piano sembra funzionare e prendono coraggio, arrivando addirittura a far credere l’esistenza di un movimento, i Pirati del Merito, che si batte contro ogni forma di raccomandazione. Ma le cose iniziano a sfuggire di mano…

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