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Lavoro

Leadership: cosa un manager può imparare dai Navy Seal

Considerati i “duri più duri” che ci siano, in tema di leadership i militari Usa hanno molto da insegnare a chi ogni giorno si trova a combattere una guerra molto diversa: quella degli affari. Perché tante delle qualità indispensabili per un buon militare sono anche quelle che rendono forte un capo

Ramadi, Iraq, quartier generale delle for­ze americane. Nella sala del debriefing re­gnava il silenzio assoluto. Erano presenti l’ufficiale comandante e il capo di primo grado, una sorta di corte che avrebbe do­vuto giudicare le responsabilità dietro un grave incidente che si era appena ve­rificato. Un team di Navy Seal era rima­sto coinvolto in un feroce conflitto a fuo­co con dei soldati iracheni, loro alleati, scambiati per insorgenti e venendo a sua volta preso per un nugolo di miliziani. Il responsabile più alto in grado dell’ope­razione, Jocko Willink, chiese agli astanti di chi fosse la colpa dell’incidente e fece ciò che un vero leader avrebbe fatto: in­dicò se stesso come responsabile ultimo. «Retrospettivamente, è chiaro che pren­dermi la piena responsabilità della situa­zione accrebbe la fiducia che i miei su­periori avevano in me. Se avessi cercato di dare la colpa a qualcun altro, sospetto che mi avrebbero sollevato dall’incarico, e giustamente», racconta lo stesso Wil­link in Mai dire ma (Piemme), libro scrit­to dall’ex ufficiale delle forze speciali del­la Marina Usa insieme al suo compagno d’armi, Leif Babin. Si tratta di un manua­le per manager in cui vengono elencati alcuni principi che un leader deve cono­scere e applicare. I due sono i fondatori di Echelon Front, società di consulenza che si propone di portare nel mondo del corporate l’esperienza di leadership ma­turata in ambito militare. Idea vincente, perché la domanda è forte e in continua crescita. Migliaia di aziende fanno la fila per assicurarsi il counseling di ex sol­dati, per formare i propri quadri dirigenti, generando un mercato fiorente. Gli stessi trainer professionali, gli istruttori di busi­ness leadership, riconoscono che la loro disciplina deve molto, o quasi tutto, alla military leadership.

Il perché è semplice. I soldati di carriera sono quanto di più simile esista ai celebri Cavalieri Jedi di Star Wars e vengono edu­cati all’altruismo, all’abnegazione, alla re­sponsabilità, al sacrificio e al senso di ap­partenenza, tutte qualità che le imprese vorrebbero vedere nei propri dipenden­ti, soprattutto nei quadri dirigenti. I mo­menti di team building, cui sempre più aziende fanno ricorso, sono un esempio di gestione del gruppo mutuato dall’e­sperienza militare. In simili occasioni, può rivelarsi estremamente utile il role reversing, cioè l’inversione di ruolo, che consiste nell’affidare a un lavoratore su­bordinato un compito da leader nell’ese­cuzione di una prova, tecnica cui facevano ricorso John Stokoe, ex vicecomandan­te delle truppe di terra britanniche entra­to poi nel board di British Telecom, e Lyn Webb, senior manager di Deloitte, colos­so della consulenza al quale arrivò dopo una carriera ventennale nel prestigioso Royal Air Service. Queste esperienze servono a motivare il soggetto e a responsa­bilizzarlo.

Un’altra qualità che gli azionisti vorrebbero vedere nei loro Ceo è la ve­locità di pensiero e di azione. In battaglia non c’è tempo per il dubbio, bisogna ave­re riflessi pronti e una capacità di analisi e sintesi da far impallidire il pc più velo­ce. Anche qui, l’esperienza militare si ri­vela utile. L’Aeronautica americana, per esempio, ha creato un programma d’ad­destramento mirato noto in gergo come OODA Loop, detto anche Ciclo di Boyd, dal nome del colonnello che lo sviluppò. Si tratta di uno schema basato su quat­tro azioni, Osservare, Orientare, Deci­dere, Agire divenuto un pilastro del de­cision making in situazioni di conflitto e con uno scenario in rapido mutamento. Questo schema d’azione è stato traslato nel mondo del business e viene comune­mente adoperato per migliorare la com­prensione di operazioni commerciali.

Spesso, quello che i militari hanno da in­segnare, è comune buon senso, che tut­tavia le imprese faticano a mettere in pra­tica. Secondo Tom Kolditz, ex generale di Brigata dell’esercito Usa, per 12 anni di­rettore del dipartimento di Scienze com­portamentali dell’Accademia Militare di West Point e autore del manuale In Ex­tremis Leadership: Leading as if Your Life Depended on It, il leader deve passare molto tempo con la sua truppa e cono­scere i suoi soldati. Solo così può far ca­pire ai suoi “follower” che la sua sicurez­za e il suo successo vengono dopo il loro. E qui, l’aspirazione ideale si scontra con la realtà. Nel mondo del corporate acca­de di frequente che il Ceo di una socie­tà sull’orlo del baratro riesca a paracadu­tarsi fuori con una buonuscita milionaria. Inoltre, nei corpi armati, la sperequazio­ne salariale tra la truppa e il vertice è for­te ma non irragionevole, come quella che spesso si registra nel mondo delle corporation. Questa distanza rende diffi­cile riprodurre quel cameratismo che aiu­ta a fare gruppo e a sviluppare un senso di missione.

In questo campo, gli Stati Uniti sono mol­to avanti. James Nassiri, ex ufficiale della US Navy, passato dalla plancia di coman­do di sottomarini nucleari a quella del­la sua azienda, Beyond the Uniform, ha spiegato in un articolo postato su Me­dium dal titolo What I Learned from 4.300 military veterans working in manage­ment consulting, che quella delle consu­lenze è la quinta industria del Paese per numero di ex militari assorbiti. Secondo uno studio dello US Census Bureau del 2017, i veterani sono i titolari di 2,52 mi­lioni di imprese, il 9,1% del totale, con un fatturato di 1,14 trilioni di dollari e oltre 5 milioni di dipendenti. In Italia, il merca­to è molto ridotto, non solo rispetto agli Usa, ma anche a Francia e Gran Bretagna. I militari italiani che hanno scelto la consulenza lavorano più all’estero che in pa­tria. Questo dipende, per esempio, dal pacifismo iscritto nel Dna (e nella Costi­tuzione) del Paese, dal minor prestigio di cui godono i corpi armati, ma soprattut­to dimensione dell’impresa italiana, fat­ta di microaziende che non hanno il bud­get né un personale tale da giustificare un certo tipo di investimento, spesso domi­nate da un fondatore che non prendereb­be mai in considerazione l’idea di andare a ripetizione di leadership.

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