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Lavoro

Inglesismi indigesti

Abbiamo davvero bisogno di shiftare, splittare, bookare e uploadare? Ogni giorno facciamo meeting, speech e conference call. Ma che ne è stato delle vecchie e care riunioni? E dei discorsi? Li abbiamo dimenticati nei nostri vocabolari, sostituiti da parole in lingua inglese e paradossali neologismi

«La conference call è schedulata per le undici». «Appena arrivo in ufficio ti forwardo la relazione». O ancora «le invio un feedback al più presto». Quante volte nell’arco di una giornata sentiamo e usiamo espressioni di questo genere? Spesso, anzi spessissimo. Eppure non sarebbe più semplice dire: «La riunione telefonica è fissata per le undici», «Appena arrivo in ufficio ti inoltro la relazione» e «Le invio un riscontro al più presto»? Indubbiamente saremmo più corretti dal punto di vista formale e almeno utilizzeremmo una sola lingua, l’italiano. E allora perché abusiamo dell’inglese? Sudditanza psicologica nei confronti delle culture anglofone, senso di appartenenza a uno specifico comparto o voglia di sembrare più internazionali di quello che siamo, le cause forse sono meno importanti degli effetti. Fatto sta che gli inglesismi sono entrati con forza nel nostro vocabolario lavorativo. Il che va bene quando la parola inglese è utilizzata a proposito, quando non ci sono traduzioni in italiano che esprimono puntualmente lo stesso concetto. È il caso per esempio di briefing, brainstorming e blog – e al di fuori da situazioni lavorative check in o check out – che non potrebbero essere resi nella nostra lingua se non con lunghe parafrasi. Ma si tratta di pochi e sporadici esempi. In tutti gli altri manager e imprenditori sembrano ripudiare le infinite sfumature e la ricchezza della lingua italiana quasi con vergogna. Ebbene è giunto il momento di porre rimedio a questa distorsione.

Il must

Chi non ha mai sentito dire o letto su riviste che un determinato accessorio moda è il must have della stagione? Un tal marchio è trendy e un certo capo di abbigliamento è cool oppure à la page? Sì, perché forse la moda è l’unico contesto in cui l’inglese deve confrontarsi con un altro idioma, il francese. Insomma tutto fuorché l’italiano. Ma forse la situazione più paradossale è quando creiamo neologismi improbabili pur di non fare uso della lingua di Dante e Manzoni. Basti pensare al difficilmente comprensibile “bookare” nel senso di prenotare una campagna pubblicitaria, “uploadare” per trasferire in uno spazio digitale un contenuto, “splittare” inteso come suddividere qualcosa tra più persone o ancora “shiftare” per posticipare nel tempo. Gli esempi di storpiature sono infiniti e si moltiplicano giorno dopo giorno. Ne guadagniamo in chiarezza di espressione? Probabilmente no. Una cosa è certa, quando l’espressione straniera è usata per moda o abitudine se ne può fare tranquillamente a meno. È vero che meeting sappiamo tutti cosa significa ma perché usarlo in luogo di riunione? La stessa cosa per quanto riguarda break al posto di pausa, default per prassi, brand per marchio o speech per discorso. L’italiano sembra proprio non entusiasmarci. Anzi in certi contesti ce lo dimentichiamo proprio. Così come accade che ci scordiamo che una parola che usiamo quotidianamente è di origine straniera. È il caso di espressioni come performante, customizzato o verbi come implementare, tutti di radice inglese ma ormai adottati dal nostro vocabolario.

I settori più anglofili

Se il discorso è valido un po’ in ogni contesto lavorativo, l’abuso di inglesismi è però più evidente in certi settori. Pensate allo smarrimento di un manager che si trova catapultato in un mondo e in un gergo del tutto sconosciuti. Forse si aspetta un ufficio nuovo e colleghi e collaboratori diversi, un’iniziale diffidenza da parte dei suoi interlocutori, forse sa che sarà oggetto di studio e attenta osservazione per un po’ di tempo, ma difficilmente immaginerà che da quel momento in poi avrà a che fare con home economist, table top e camera car, termini oscuri ai più tranne che ai pubblicitari. E non si tratta di conoscere o non conoscere l’inglese, perché la traduzione letterale di questi termini non aiuta in alcun modo. Chi mai potrebbe arrivare a intuire che l’home economist è il professionista che in ambito pubblicitario si occupa di preparare il cibo per le riprese o gli scatti fotografici? Da un settore insospettabile come la comunicazione non ce lo saremmo mai aspettati. L’informatica ci ha abituato a un linguaggio impenetrabile, ma forse è la sua natura e universalità che lo richiede. E la consulenza e la finanza, avendo un’origine anglossassone, non hanno potuto fare altrimenti. Un po’ perché i guru del settore sono anglofoni, un po’ perché si parla inglese nelle business school e un po’ perché obiettivamente certi termini sono più sintetici dei corrispondenti italiani. Così termini come leverage, subprime e covenant sono ormai all’ordine del giorno. Tuttavia non dobbiamo dimenticarci che l’obiettivo primario di qualsiasi tipo di linguaggio, ancora di più in ambito professione, è comunicare cioè veicolare informazioni in modo chiaro e senza fraintendimenti. Non possiamo ignorare lo sbigottimento del nostro interlocutore di fronte alle nostre parole, ma dobbiamo adattare il nostro registro linguistico alla persone che abbiamo di fronte.