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Lo spionaggio diventa consumer

Arriva Rapleaf: una società capace di scoprire tutto su chiunque sia on line costruendo liste di potenziali clienti che le società di marketing pagano a peso d’oro. Il caso che scuote l’America. Parla Mauro Paissan dell’Authority, ecco cosa dice il Garante della privacy

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Il nostro obiettivo è costruire un mondo più personalizzabile possibile e migliore per le persone». È questa la strada verso la costruzione del benessere globale, imperituro e per tutti, cioè democratico. Tutto inizia negli Stati Uniti, un Paese che il diritto alla felicità l’ha inserito nella Costituzione. Auren Hoffman, ceo e fondatore insieme a Manish Shah di Rapleaf – il sito che tanto fa discutere l’America e quasi nulla l’Italia -, immagina un mondo a “immagine e somiglianza” dell’uomo. Un mondo nel quale ogni singola persona possa trovare sempre e comunque, in ogni ambito, ciò che vuole. Senza nemmeno cercarlo. Infatti: cos’è più utile a questa causa di un’offerta di consumo totalmente personalizzata? Questa è la pretesa di Rapleaf, una start-up nata nel 2006 a San Francisco con lo scopo di creare database differenziati per segmenti di clienti, così da offrire profili con informazioni ricavate dalla rete ad agenzie di marketing. Il funzionamento è semplice: una società pubblicitaria, oppure un politico a caccia di consensi, bussano alla porta di Rapleaf per chiedere una lista di persone a cui rivolgersi con determinate caratteristiche di sesso, età, abitudini, credenze, situazione familiare, reddito e quant’altro. Un target selezionato e fatto su misura, come un vestito cucito dal sarto. Rapleaf risponde offrendo il meglio di quanto è reperibile sul web. Così un bel giorno capita che Mrs Twombly, con idee politiche conservatrici, si ritrovi subissata di messaggi elettorali provenienti proprio da candidati del Partito Repubblicano. Ma chi gliel’ha detto ai politici in cerca di voti quali siano le preferenze della signora Twombly?È la domanda che si è posto il Wall Street Journal quando nell’ottobre scorso ha smascherato un meccanismo tale da far sobbalzare sulla sedia mezza America. È stato Rapleaf con la “gentile collaborazione” dei più importanti social network, Facebook e MySpace su tutti. Rapleaf non faceva altro che raccogliere le informazioni personali reperibili su Internet e poi rivenderle a una dozzina di aziende secondo le loro esigenze. Ti serve l’anziano che ama i cappelli da cow-boy del Texas e vota repubblicano? Servito. Oppure il giovane di colore che va pazzo per la musica rap a cui vendere dischi? Pronto anche lui, e così via. Gli stessi dirigenti di Rapleaf per difendersi dalle accuse di violazione della privacy, hanno spiegato che la loro attività si basa sull’offerta di contenuti e pubblicità pertinenti ai gusti degli utenti e in grado di portare vantaggi ai consumatori, oltre che alle aziende. I dati arrivano nei database di Rapleaf direttamente da alcuni siti che richiedono la registrazione (oltre a Facebook e MySpace anche Pingg.com, About.com, TwitPic.com), dopodiché viene anche installato un “cookie” con tutte le informazioni personali sul Pc dell’utente che a quel punto è diventato un potenziale cliente riconoscibile, preda delle società pubblicitarie pronte a subissarlo di messaggi. Secondo quanto riportato dal WSJ in questi dossier arrivano a trovarsi anche informazioni come il reddito personale e familiare, il numero dei figli, la fede religiosa, le abitudini alimentari, i vizi, la passione per scommesse, sport, fino a quella per i film porno. Come se non bastasse, il più delle volte a fornire i dati degli utenti direttamente anche alle agenzie di marketing, erano gli stessi social network attraverso alcune loro applicazioni, come Farmville, Texas HoldEm Poker e Frontier Ville, nel caso di Facebook.Proprio in Italia, dove il caso Rapleaf è passato sotto silenzio, potrebbero invece verificarsi in futuro problemi seri. Ne è convinto Mauro Paissan, componente dell’Autorità Garante della privacy (protezione dei dati personali) che spiega come in realtà Rapleaf sia «solo una delle numerose imprese che analizzano, a scopo di lucro, i dati dei navigatori di Internet». Spesso infatti sono i grandi nomi di Facebook e Google ad attirare l’attenzione, «ma sono molte le società che ambiscono a conoscere i gusti, le preferenze dei navigatori. Il valore commerciale di questi dati, infatti, è molto alto». Tuttavia, sul caso Rapleaf il Garante assicura di non aver ancora ricevuto segnalazioni specifiche, «ma questo», precisa Paissan, «non significa che gli utenti del nostro Paese, o di altre nazioni europee, non siano inclusi nei dossier realizzati da questa o altre società affini». Dove sta allora l’equilibrio tra tutela della privacy e attività di marketing? «Nell’utilizzo di strumenti leciti e non invasivi», risponde. «Faccio un esempio paradossale: nel cosiddetto “mondo reale” nessuna società penserebbe di sfilare il portafoglio dalla giacca di un cliente per avere i suoi dati o per capire se ha abbastanza soldi per acquistare i suoi prodotti. Così nel mondo virtuale non può essere consentito il furto di dati personali, l’uso di software che spiano il comportamento dei navigatori o le loro comunicazioni private». Anche perché se lo si fa, si rischia grosso, con multe salate fino a 120 mila euro e in caso di reati penali la reclusione fino a tre anni. «Può sembrare banale», conclude Paissan, «ma la cautela migliore è la prevenzione. L’utente deve essere consapevole che quando pubblica dei dati personali sul proprio profilo di un social network, ne perde il controllo. Quasi mai, infatti, essi rimangono accessibili alla ristretta cerchia dei soli amici. Non solo, una volta inseriti su Internet, la loro vita digitale è potenzialmente eterna. Tali informazioni infatti, possono essere registrate e conservate, per esempio, dal sito a cui accediamo, dal motore di ricerca che le ha indicizzate, dagli stessi visitatori delle nostre pagine web. Siano essi il nostro compagno di banco, una società di marketing o il responsabile della selezione del personale dell’azienda dove abbiamo sempre sognato di lavorare. A volte, anche la pubblicazione di una bella notizia come la partenza per una vacanza può comportare spiacevoli inconvenienti: sono numerosi i casi in cui i ladri hanno potuto svaligiare la casa di sfortunati utenti che avevano annunciato la loro partenza proprio sul loro profilo on line».

Credits Images:

Mauro Paissan, componente dell’Autorità Garante della privacy