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Dentro la battaglia dei domini

Dimenticate i soliti .com e .it, sono 700 i nuovi “punto qualcosa” già disponibili e ne arriveranno a breve altrettanti. Molte aziende si sono già gettate nella mischia per aggiudicarsi i più ambiti, mentre l’Italia sembra ancora impreparata. Ecco quali sono i rischi e i vantaggi per le imprese

Col .com è nato, col .it è cresciuto. E oggi Internet non ha quasi più confini: sono 700 i nuovi domini di primo livello, cioè i “punto qualcosa” già disponibili e altrettanti arriveranno sul mercato nei prossimi mesi, grazie al processo di liberalizzazione dei cosiddetti top level domain, cioè l’ultima parte degli indirizzi interni, iniziato due anni fa. Ma siamo davvero pronti per il .pizza, .moda o .auto? E quali rischi corrono le aziende?

Dove comprare (e vendere)

Pro e contro: la parola agli esperti

A ciascuno il suo “punto”

Andiamo con ordine. La notizia che Aruba ha soffiato a Google e Amazon, per una cifra che resterà sempre top secret, il dominio più ambito al mondo, .cloud, ha sollevato l’interesse sulla questione.

Quanto vale questo mercato e come funziona? Semplice: al vertice c’è l’Icann, l’organizzazione non profit dei nomi di dominio di Internet, nata con il compito di assicurare la sicurezza, lo sviluppo e la stabilità del Web: è questa che, due anni fa, ha reso possibile richiedere di diventare un Registro di un nuovo “top level domain”, al costo non irrisorio di 185 mila dollari come base di partenza.

Le richieste sono arrivate da tutto il mondo e in molti casi si è scatenata una vera e propria battaglia: è quel che sta succedendo per circa 230 nomi, fra i quali i più contesi sono .web, .shop, .app, .home, .inc o .art.

SONO 230 I NOMI AL MOMENTO

PIU’ RICHIESTI. TRA QUESTI:

.web, .app, .shop, .home

Naturalmente vince il più forte, ma l’arbitro resta l’Icann, che può bloccare tutto. Per esempio ha negato ad Amazon la richiesta di registrare il .amazon sulla base delle obiezioni mosse dalle autorità brasiliane e peruviane. E qui arriva il secondo problema.

Chi c’è dietro l’Icann? Fin dall’inizio è controllata dalla National telecommunications and information administration, o Ntia, che fa parte del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti: un fatto che ha sempre sollevato critiche e dubbi sulla neutralità della Rete. Ma sta per cambiare tutto: entro fine anno il governo Usa farà un passo indietro, trasferendo ad altri le funzioni fondamentali legate ai nomi di dominio di Internet.

In pratica, dal prossimo autunno il dipartimento del Commercio Usa esce dalla stanza dei bottoni e cede il “controllo” della Rete. Ma a chi? Questo è il punto: il nuovo modello organizzativo è ancora da decidere. E probabilmente oltre ai governi – e già questo solleva forti preoccupazioni, perché sono in molti a temere il peso che Cina e Russia avrebbero negli equilibri di Internet – nel “nuovo” Icann verrà garantito uno spazio alle associazioni e, sorpresa, anche alle aziende private.

«Si, a quelle che operano sul Web e forse anche ai registri ufficiali dei nuovi domini com’è Aruba», azzarda Stefano Sordi, direttore marketing della società fondata ad Arezzo nel 1994, «assieme ai governi e alle comunità, in modo da garantire pluralità di comando e preservare la sicurezza, la stabilità e la resistenza della Rete, mantenendo la natura open di Internet».

In attesa di dire addio al modello Usa-centrico, la rivoluzione, sul fronte della liberalizzazione dei domini, è già cominciata: è uno scenario in continua evoluzione nel quale le aziende giocano per accaparrarsi i nuovi domini “liberati”. Anche in Italia.

Fiat, per esempio, ha fatto domanda di registrazione per tutti i suoi marchi: abarth, .alfaromeo, .ferrari, .fiat, .iveco, .lancia, .maserati e .newholland. Resta da spiegare il perché di tanto interesse. «Prima di tutto, vi è la pura attrattiva economica», spiega l’avvocato Gabriel Cuonzo dello studio Trevisan & Cuonzo avvocati, specializzato nel settore della proprietà intellettuale, della tutela dei marchi e dei brevetti, «ovvero l’acquisto per spirito d’impresa.

Le possibilità di business aperte dai nuovi top level domain sono, infatti, molteplici e potenzialmente di enorme successo. Dall’altro lato, vi è anche una ragione difensiva, di tutela dei propri marchi e segni.

Questa è la ragione, per cui moltissime imprese, anche non strettamente orientate al solo mercato on line, hanno richiesto la registrazione di top level domain corrispondenti ai propri marchi o segni distintivi. In questo modo, infatti, mirano ad assicurarsi un controllo diretto sui futuri nomi a dominio creati con questi top level domain, come fatto da Bmw, che ha già ottenuto la registrazione per i suoi brand Bmw e Mini.

Un fatto è comunque certo», continua, «i nuovi domini customizzati avranno un forte impatto sul pubblico, maggiore riconoscibilità rispetto a oggi e di conseguenza un valore di mercato sempre più grande». Per le imprese, allora, l’imperativo è tutelare il proprio marchio sul Web con misure preventive, per evitare che qualcuno si appropri di brand altrui, e misure offensive, quando questo accade. «L’adozione di queste contromisure», aggiunge Gabriel Cuonzo, «non ha solo l’effetto di proteggere le imprese, ma anche quello di tutelare i consumatori, garantendo un corretto collegamento tra prodotto e servizio offerto in Rete e l’impresa da cui lo stesso proviene».

AVRANNO PIU’ IMPATTO

SUL PUBBLICO,

RICONOSCIBILITA’

E VALORE DI MERCATO

Una questione calda, dunque, che apre diversi spiragli di riflessione riguardo ai rischi e alle opportunità per aziende e consumatori. I modi per difendersi ci sono. Primo, registrando subito il proprio marchio e, oggi, anche il proprio dominio di primo livello. Secondo, monitorando periodicamente i nomi a dominio in fase di registrazione, nel caso si volesse fare opposizione.

Tra le misure protettive suggerite dagli avvocati gioca un ruolo fondamentale la pratica del passive holding, cioè la possibilità di registrare a prezzi ragionevoli tutti i possibili nomi a dominio simili a quelli di effettivo utilizzo, senza usarli veramente, ma evitando così che lo possano fare altri. Di domini ancora liberi, infatti, ce ne sono moltissimi.

E se alcuni sono al centro di dispute – al punto che la Commissione europea è in prima fila sul problema dell’attribuzione di .wine e .vin – in altri casi si assiste a un (inspiegabile) disinteresse: in Italia ancora nessuno si è candidato per .venezia, .milano .firenze o .napoli, mentre .roma è stato richiesto da un’azienda delle Isole vergini britanniche.

Fra le grandi aziende, oltre a Fiat, hanno registrato il loro “punto” Cipriani, Gucci, Lamborghini, Bnl e Praxi. Nessuno invece è in lizza per .pasta mentre .pizza ha quattro candidature e .design ne ha ben otto. Punto.

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