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Venerdì, 02 Aprile 2021
Michele Crivellaro-Sostenibilità-Greenwashing

Il parere di Michele Crivellaro, co-autore del volume Sostenibilità e rischio Greenwashing

Anche con le migliori intenzioni cercare di capire chi fa sul serio e chi sfrutta il trend di mercato non è semplice, a causa della mancanza di riferimenti chiari e univoci per tutti. Le etichette presentano una varietà di marchi riferibili a pratiche sostenibili non sempre verificabili o riconducibili a organizzazioni universalmente note. Ne abbiamo parlato con Michele Crivellaro, esperto di certificazione ambientale, formatore e co-autore, insieme a Giampietro Vecchiato, del volume Sostenibilità e Rischio Greenwashing  (Libreria Universitaria Edizioni, 2012).

C’è realmente bisogno di una comunicazione più corretta ed efficace sui temi della sostenibilità?
Direi di sì, perché anche se recentemente l’Unione Europea ha varato dei regolamenti su cosa è realmente un investimento sostenibile, o un’attività economica green – che finora non erano codificati – esistono ancora determinati aspetti legati agli indicatori e alle prestazioni che derivano da protocolli privati, a volte certificabili, e non da autorità pubbliche in grado di omogeneizzare le informazioni. La questione è che nonostante il protocollo Iso abbia stabilito cosa sia una carbon footprint , per esempio, rendere confrontabili e facilmente comprensibili i dati non è per niente scontato. Gli obiettivi ambientali e la nuova tassonomia europea ci renderanno comunque la prima area del mondo che abbia codificato con un atto legislativo che cos’è investimento sostenibile nella rendicontazione non finanziaria: questo significa molta più attenzione alle informazioni sulla sostenibilità trasferite al mercato.

Quanto sono affidabili i marchi di sostenibilità?
Esistono delle limitazioni oggettive legate alla capacità di rendere con una comunicazione sintetica l’effettiva sostenibilità di un prodotto. “Sostenibilità” è un concetto molto ampio e si applica a molteplici ambiti, sociale, etico e di governance, non solo ambientale. Riuscire a sintetizzare con poche informazioni la sostenibilità di un’azienda è molto difficile. Tant’è che molto spesso i marchi sono mono aspetto, o se sono pluriaspetto sta poi al consumatore il compito di procurarsi le relative informazioni.

Il mercato green è appetibile anche per le pmi: hanno le risorse per essere sostenibili oppure è solo una facciata?
Essere sostenibili è difficile, dipende molto dal valore riconosciuto dalla proprietà e dal management al dato “non finanziario”. Per molti aspetti per le pmi potrebbe essere un’operazione più agevole, perché sono aziende di complessità inferiore, hanno delle catene produttive più limitate, meno dati da gestire, quindi si tratterebbe di trovare il giusto equilibrio. Oggi per una pmi diventare per esempio carbon neutral  è fattibile, a patto che esistano le condizioni economiche per farlo. Uno stimolo importante viene dall’economia circolare.

Esiste un problema di linguaggio nella sostenibilità: parole come naturale, ecologico, biodegradabile si basano su realtà concrete?
Il problema esiste effettivamente. Una cosa è segnalare una sostanza come compostabile (e che poi vada a finire nel compost è ancora un’altra storia), diverso è dire che è biodegradabile. La vera scommessa sarà la capacità di concepire il prodotto nella sua interezza come sostenibile, non solo la filiera produttiva, partendo dal design. L’upcycling  e il mixed recycling  oggi rappresentano approcci interessanti che hanno a che fare con l’economia circolare e lo zero waste . Questa è la via da percorrere. La buona notizia è che dall’Ue non sono mai arrivati tanti incentivi e stanziamenti a disposizione delle aziende come in questi ultimi tempi, quindi da questo punto di vista se c’è la volontà e la politica saprà cogliere questa opportunità mai come ora potrebbe crearsi un big bang della sostenibilità.

Rispetto a quello che esiste, quanto è verificabile un’affermazione di sostenibilità sul mercato? La legge sulla pubblicità ingannevole è sufficiente?
Le leggi ci sono ma non mi risultano casi di pubblicità correttive a fronte di una rilevazione di infrazione. Si paga la sanzione e si va avanti. Al momento la sensibilità del mercato appare legata all’iniziativa di organizzazioni come Ong o associazioni di consumo responsabile. C’è anche un aspetto psicologico da considerare, spesso il pubblico è portato a perdonare delle scelte discutibili in virtù dell’emozione che un brand suscita o ha rappresentato. L’acquisto non è un fatto razionale, è sempre più emotivo. Una fetta della popolazione è già più consapevole di questo e più attenta. Vedremo che tipo di cultura ecologica – non ambientalista – la scuola sarà in grado di creare.

È difficile districarsi tra i tanti bollini sulle etichette, come capire chi certifica cosa e quali fanno capo a strutture scientifiche o meno?
È un’operazione molto complicata. Infatti, qualche anno fa ci fu l’iniziativa di AssoSCAI (Associazione per lo Sviluppo della Competitività Ambientale d’Impresa), che ha proposto un’etichettatura multimarchio, un sistema che riuscisse a integrare le certificazioni di qualificazione ambientale presenti sul mercato, basato sull’intero ciclo di vita del prodotto, e comunicabile con chiarezza e completezza. Purtroppo, non ha avuto seguito, non è stato capito, era un approccio troppo futuristico e i tempi non erano ancora maturi.

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