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Eppur si muove. E in fretta

Non è vero che la coscienza ecologista è solo una moda. In tutto il mondo anche i Paesi emergenti stanno spendendo miliardi per adeguarsi a un’economia e a uno stile di vita etici. E in Italia? Si potrebbe fare molto di più. E ci guadagnerebbero anche i brand, perché i consumatori non aspettano altro

Quella della Green economy è una disciplina giovane, giovanissima. E a pensare che è solo nel 2006, con il rapporto Stern (commissionato all’economista dal governo britannico per valutare l’impatto dei cambiamenti climatici sull’economia globale), che il termine ha assunto, per la prima volta, il significato che tutti ora gli attribuiscono, si prova quasi un senso di straniamento. Possibile che il mondo sia cambiato tanto in fretta? Possibile. Anzi, necessario. Del resto Nicholas Stern, ex capo economista della Banca mondiale, aveva parlato chiaro: se non si raddrizzano subito le cose, entro il 2050 i cosiddetti Paesi industrializzati avranno perso il 20% del Pil a causa delle trasformazioni climatiche dovute alle emissioni di CO2. Internet ci ha messo lo zampino, e la New economy, che all’inizio degli anni 2000 era implosa subito dopo aver mosso i primi, entusiastici passi, ha avuto la sua piccola rivincita: ha giocato un ruolo determinante nella partita della trasparenza e della diffusione di una coscienza non tanto ecologista in senso stretto, quanto sostenibile, nell’accezione più vasta della parola. Le persone – individui, cittadini e consumatori – si sono gradualmente rese conto di quante cose si possono ottenere per sé e per l’ambiente spesso con pochi, piccoli gesti. E hanno cominciato a pretendere scelte nella medesima direzione anche da parte delle aziende e dei governi. Inutile nascondersi dietro un dito: se fino a cinque anni fa ecosostenibile era quasi sinonimo di utopico, oggi tutto ciò che non è green, è out. È vero, spesso sembra prima di tutto una questione di marketing, a volte di pura facciata: una ripulita verde – o green washing, come gli addetti ai lavori chiamano l’atteggiamento delle aziende che cercano di farsi belle agli occhi dei clienti con l’ecologia. Ma oramai chi fa il furbo viene smascherato nel giro di pochissimi click. Un esempio? Basti pensare a quel che è successo alla Tepco, la società che gestisce la sicurezza nucleare in Giappone: ancor più delle oggettive responsabilità che la Tepco ha avuto nel disastro di Fukushima, in Giappone, ha fatto scalpore l’esclusione dal Dow Jones Sustainability Index (DJSI) del gigante energetico nipponico, defenestrato a maggio in seguito all’accertamento delle negligenze che hanno reso l’impianto atomico vulnerabile al disastroso tsunami dello scorso aprile. Di certo non è – soltanto – per questo che nel primo trimestre dell’anno fiscale 2011-2012 Tepco ha registrato una perdita di 572 miliardi di yen (circa 5 miliardi di euro), ma c’è da star certi che la rimozione di un certificato di fiducia come quello del DJSI ha pesato e peserà sul conto economico del gruppo.Il Dow Jones Sustainability Index è infatti il club esclusivo delle grandi società quotate in Borsa che puntano a raggiungere stabilità ed equilibrio anche rispetto alle tematiche ambientali e sociali. Entrarci, e soprattutto rimanerci, è la prima attestazione di un comportamento virtuoso nei confronti dei consumatori e della sostenibilità. Ne fanno parte colossi come Ibm, Nestlè, General Electric, Novartis, Vodafone e Coca-Cola, solo per citare alcuni dei brand più noti e di maggior peso dell’indice. I settori che allocano maggiori risorse erano a fine luglio quello finanziario, con il 19,34%, i beni di largo consumo, con il 13,63%, la grande industria, con il 12,07% e la farmaceutica, con l’11,89%. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, al momento le grandi società che si occupano di energia coprono solo il 7,93%. Dal punto di vista geografico, a farla da padrone sono gli Stati Uniti, con il 28,59% delle risorse impiegate, la Gran Bretagna, con il 17,23%, la Svizzera con l’8,44% (qui il peso di Nestlè, Novartis e Roche si fa sentire) che precede la Germania con l’8.09%. L’Italia? Molto più basso, al 13esimo posto, subito dopo il Brasile, con l’1,97%. E nessuna delle aziende al top per ciascuno dei 19 macrosettori presi in considerazione dall’indice (vedi tabella) è italiana, mentre svettano le società olandesi, spagnole e svizzere. Di certo ora come ora a Wall Street avranno altro a cui pensare, dovendo raccogliere i cocci delle economie americana ed europea, che dal punto di vista finanziario, nello scorso torrido agosto, hanno viaggiato sulle montagne russe.

Brand alla riscossa I 20 marchi più verdi secondo Interbrand

1. Toyota 2. 3M 3. Siemens 4. Johnson-Johnson 5. HP

6. Volkswagen 7. Honda 8. Dell 9. Cisco 10. Panasonic

11. Hyundai 12. Bmw 13. Apple 14. Danone 15. L’Oréal

16. Mercedes Benz 17. Nike 18. Sony 19. Ibm 20. Ford

Ma forse è proprio dal Dow Jones Sustainability Index che possono arrivare alcune risposte per far conoscere all’economia occidentale una nuova fase di crescita e stabilità. Innanzitutto perché incoraggiare le grandi multinazionali a perseguire una condotta sostenibile significa diminuire gli sprechi, ottimizzare i processi industriali, e promuovere, anche indirettamente, gli investimenti in ricerca e sviluppo per lo sfruttamento di energie rinnovabili, con conseguente crescita dei posti di lavoro. Senza contare che potrebbe aiutare a diminuire drasticamente la dipendenza dei paesi avanzati dal petrolio. Che non è solo una fonte energetica costosa da ottenere e inquinante per l’ambiente. È pure una risorsa che alla minima tensione politica o anche solo diplomatica scatena sensibili fluttuazioni nei mercati internazionali. Sembra paradossale, ma il buon esempio arriva proprio da alcuni dei principali paesi esportatori di petrolio e gas. Se l’Arabia Saudita ha annunciato in primavera di essere in procinto di varare un piano da 100 miliardi di dollari per la creazione di impianti fotovoltaici, l’agenzia dell’Onu Unep (United Nations Environment Programme, Unep.org) mette in evidenza il caso della Tunisia, che per abbattere i consumi interni di petrolio e gas già dal 2005 ha puntato il proprio futuro sui pannelli solari. I primi investimenti, di circa 290 milioni di dollari, sono serviti anche ad aumentare l’efficienza delle strutture già esistenti, generando un risparmio intorno al 20% dell’attuale bolletta energetica nazionale già nel corso del 2011. Entro il 2016 saranno 2,5 i miliardi di dollari spesi per portare a termine il progetto di rinnovamento infrastrutturale: 24 milioni provenienti dalla cooperazione internazionale, 175 istituiti dal Fondo nazionale, 530 forniti dal pubblico e ben 1.600 provenienti da fondi privati, con evidenti, favorevoli ricadute sull’occupazione tunisina. Dovrebbe far riflettere anche il fatto che nemmeno due dei locomotori dell’economia mondiale, Cina e Brasile, quando si parla di Green economy, stanno a guardare. Nonostante i tassi di crescita a due cifre, o forse proprio per questo, entrambi i giganti stanno infatti investendo pesantemente sulla sostenibilità ambientale. Tra le iniziative segnalate dall’Unep, ci sono l’imponente piano energetico predisposto dal Celeste impero (solo nel 2009 si sono creati in Cina 300 mila posti di lavoro) e la nuova strategia per la realizzazione di quartieri abitativi a basso impatto nelle megalopoli carioca.

ITALIANI: SANTI, POETI ED ECOLOGISTI

94,8% limita gli sprechi d’acqua

84,5% acquista prodotti alimentari a filiera corta o biologici

82,5% limita l’uso degli impianti di climatizzazione

75% pratica la raccolta differenziata

58,6% usa i mezzi pubblici o la bicicletta

55,8% ha ridotto l’uso di bicchieri e piatti in plastica

33% pratica il car sharing

Fonte: Fondazione impresa

E l’Italia? Sempre in bilico tra buone intenzioni, ottime tecnologie, grandi risorse e poca convinzione. Nel momento in cui si scrive, in attesa dei dettagli dell’ennesimo “ritocco” alla legge finanziaria (quello che, se tutto va bene, richiederà 55 miliardi di euro di risorse aggiuntive), sugli incentivi al settore delle rinnovabili pende ancora la spada di Damocle: i non meglio precisati sacrifici che il governo deve chiedere al Paese per sopravvivere alla crisi della fiducia dei mercati finanziari nei confronti del nostro debito andrebbero infatti anche a discapito della green economy. Peccato, perché non stavamo andando male. Nel Rapporto Italia 2010, l’Eurispes ha stimato il consumo di energia rinnovabile e di prodotti dell’agricoltura biologica, del commercio equo e solidale e della finanza etica, in circa 810 miliardi di euro nel mondo, 122 miliardi in Europa e 10 miliardi in Italia. Il Rapporto evidenzia che in Italia il consumo interno lordo di energia, se paragonato a quello di Germania, Francia e Uk, si è mantenuto su livelli inferiori ai 200 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, crescendo nel quinquennio 2001-2005 del 7,8%, ma registrando poi una flessione per tornare nel 2007 a valori antecedenti il 2004. Anche rispetto al valore delle vendite di prodotti biologici, l’Italia si distingueva (il passato è d’obbligo) per ottime performance. Il nostro mercato è attualmente al quarto posto nella classifica dei Paesi europei, con vendite di prodotti biologici per 1,87 miliardi di euro (circa un decimo delle vendite del Vecchio continente). Il problema è che non solo la nostra filiera è meno efficiente, ma si sta pure assottigliando. In Italia infatti c’è la comunità più numerosa di operatori (nel 2007 erano oltre 50 mila tra agricoltori, esportatori, importatori e trasformatori di prodotti agricoli). Tuttavia, mentre in Germania, Grecia, Spagna e Francia il numero di operatori continua ad aumentare, da noi il settore è interessato da una flessione dell’1,2%. Eppure bisognerebbe che tutti investissero di più nella Green economy, anziché battere in ritirata, perché oltre all’ambiente e all’erario se ne gioverebbero pure i brand del largo consumo. Lo si deduce dalla recente ricerca pubblicata da Fondazione impresa, secondo la quale il profilo dell’italiano ecosostenibile corrisponde a una delle fette di mercato più appetibili per gli uffici marketing delle aziende. È una donna tra i 35 e i 54 anni, con istruzione media-superiore e residente al Nord. Mai sentito parlare di “decisore d’acquisto” all’interno del nucleo familiare? Eccola, è lei. La collocazione geografica rende questo cluster anche il più adatto a un approccio al consumo alto-spendente. E in ogni caso, sempre secondo l’indagine, l’88,3% degli italiani adotta almeno cinque comportamenti che possono definirsi sostenibili. Dunque intercettarli e farli propri significa automaticamente stabilire un dialogo con la stragrande maggioranza della popolazione. Lasciate che Internet faccia la sua parte, e vi troverete a dover spendere meno, ma molto meno in pubblicità e promozione.

IL RITORNO DI AL GORE

Sono passati cinque anni da quando Al Gore, ex vice presidente degli Stati Uniti durante l’amministrazione Clinton, presentò Una scomoda verità, il documentario che gli valse il premio Nobel per la pace nel 2007. Il 14 settembre 2011 Gore ha lanciato una nuova iniziativa, una vera e propria maratona che, durante 24 ore di diretta streaming da tutto il mondo, racconterà altrettante diverse realtà del pianeta (tra cui spiccano megalopoli come New York, Nuova Delhi e Istanbul): una per ogni fuso orario. Le testimonianze provenienti da ciascun Paese descriveranno alcune delle conseguenze dell’effetto serra registrate nelle singole località, e saranno seguite da proposte e strategie per affrontare i cambiamenti climatici in corso. theclimateproject.org