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Sempre più sharing economy

Nonostante oppositori e difficoltà, la condivisione di beni e servizi si è ormai affermata nelle aree più prospere del pianeta rivoluzionando il concetto di proprietà. E aprendo il dibattito sullo status dei nuovi lavoratori “in affitto”

Negli Stati Uniti la sharing economy, l’economia della condivisione, è riuscita nel giro di pochi anni a farsi non pochi nemici, a riprova della sua capacità di imporsi sul mercato. Le battaglie ingaggiate dai tassisti contro Uber, il servizio di trasporto automobilistico nato a San Francisco che mette in contatto autisti privati e passeggeri tramite un’applicazione mobile, sono divenute materia di cronaca quotidiana dei media internazionali. Airbnb, la piattaforma online che offre ai proprietari di una casa la possibilità di affittarla per brevi periodi, ha provocato invece le lamentele degli albergatori di New York, allarmati dal suo crescente successo. Queste start up sono state capaci, nell’arco di un periodo molto breve, di raccogliere finanziamenti milionari e di raggiungere capitalizzazioni miliardarie.

«Mancano gli investimenti»

Soluzioni per le aziende

Il postulato su cui si fonda il loro operato è che a contare oggi è l’accesso a un bene o un servizio, e non più la sua proprietà: un’idea in fondo rivoluzionaria in un sistema capitalistico. La crisi economica e l’affermazione delle piattaforme digitali sono stati i due preziosi alleati della sharing economy. I progressi tecnologici, i social network, e in particolare le applicazioni per smartphone e tablet, sono stati cruciali per la crescita del mercato della condivisione di beni e servizi. Quel che oggi gli economisti si chiedono non è tanto se la sharing economy sia in grado di imporsi sempre di più tra le abitudini di consumo dei cittadini, concetto dato ormai per assodato: secondo la società di consulenza PwC, la spesa per le attività dell’economia condivisa sono destinate a esplodere nei prossimi anni, passando dai 15 miliardi di dollari attuali ai 335 miliardi nel 2025. La vera domanda adesso è quale potrà essere l’impatto di questa rivoluzione sulla società e sui diritti di lavoratori, a tutti gli effetti “autonomi” (quindi, al di fuori dal sistema di tutele creato per il lavoro dipendente). E la questione è stata non a caso messa da Hillary Clinton al centro della sua campagna elettorale per diventare candidata democratica alle presidenziali del 2016.

NEI PAESI PIÙ DEPRESSI QUESTE ATTIVITÀ

RAPPRESENTANO UNA NUOVA FORMA

DI PRECARIATO, DI IMPIEGO

SOTTOPAGATO E NON TUTELATO

QUESTIONI APERTE Quel che è certo è che nelle aree più ricche del pianeta, come la California, la flessibilità del lavoro che è alla base della sharing economy è più sostenibile. L’economia condivisa rappresenta in tanti casi un ulteriore fonte di guadagno per chi già è occupato, contribuisce insomma a diffondere ricchezza. Allo stesso tempo però, in un’America sì in ripresa da alcuni anni ma comunque segnata profondamente dalla crisi del 2008, tanti giovani sono costretti a lavorare con salari più bassi rispetto alle paghe dei loro genitori e in un regime di maggiore precarietà. La sharing economy viene dunque loro incontro: non è un caso che per i consumatori americani, sempre secondo Pwc, la competitività dei costi sia la ragione più importante del successo dell’economia della condivisione.

Nei Paesi più depressi, queste attività rappresentano invece una nuova forma di precariato, di lavoro sottopagato e non tutelato. Quella flessibilità che dalle nostre parti non paga. I primi servizi di questo settore sono partiti negli Stati Uniti nel 2008, così come in Francia e Inghilterra, per poi esplodere tra il 2010 e il 2011. In Italia, a parte qualche sporadica esperienza, l’economia collaborativa si è invece imposta all’attenzione dell’opinione pubblica solo tra il 2013 e il 2014. «La sharing economy non è stata ancora in grado di imporsi nella Penisola come un nuovo modello per fare impresa. I volumi di traffico e partecipazione ottenuti dalle piattaforme non sono, infatti, ancora sufficienti per permettere loro di ottenere degli utili», spiega Ivana Pais, professore associato di Sociologia economica alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. «Le sue potenzialità di sviluppo sono frenate nel nostro Paese soprattutto dalla lingua. L’italiano è difatti poco diffuso nel mondo, è parlato da non più di 120 milioni di persone. Il mercato potenziale degli operatori dell’economia condivisa è dunque molto limitato».

SUCCESSI TRICOLORI Alcune delle società che nel Belpaese hanno avuto successo, come per esempio i due operatori del crowdsourcing Zooppa e Shicon, hanno puntato non a caso sull’inglese come lingua di riferimento e sull’internazionalizzazione come modello di business. Zooppa è nata nei pressi di Venezia nel 2007 e già alla fine del 2008 aveva attivato la sede americana. Shicon ha uffici, oltre che in Italia, in India, Gran Bretagna e Stati Uniti.

Lo stesso dicasi di Musicraiser, la community di sostenitori di progetti musicali avviata nel 2012 su iniziativa di Giovanni Gulino, la voce del gruppo musicale Marta sui Tubi. Il portale può contare a oggi su 60 mila sostenitori-finanziatori e ha sedi a Milano, Londra e New York. Anche Fubles, il social network divenuto il punto di riferimento per chi vuole organizzare partite di calcetto (nel cui capitale tra l’altro ha fatto il suo ingresso nel 2013 la Red Circle Investments, la finanziaria di Renzo Rosso), dopo il successo ottenuto in Italia, ha spostato le sue mire all’estero e ha così avviato community in Francia, Spagna, Australia, Inghilterra e Colombia.

GLOBALE O LOCALE? «Altre start up, come Ginger, il sito di crowdfunding per l’Emilia Romagna, hanno invece focalizzato gli investimenti su un territorio più ristretto, cercando sostenitori anche tra segmenti della popolazione, come i più anziani, in genere non avvezzi al mondo della sharing economy», spiega ancora Pais. È il percorso seguito da un altro operatore di successo, Sardex.net.

Creato da Franco Contu nel 2009, in piena crisi dunque, è un circuito economico progettato per facilitare le relazioni tra soggetti grazie all’adozione di una valuta complementare. Sardex mette così a disposizione delle aziende locali un circuito digitale che consente loro di sostenersi e finanziarsi a vicenda senza interessi. Il modello ha avuto successo ed è stato replicato in altre regioni, dal Veneto (Venex) al Piemonte (Piemex), dall’Emilia Romagna (Liberex) alle Marche (Marchex), dal Lazio (Tibex) alla Sicilia (Sicanex).

Una delle peculiarità della sharing economy italiana è in effetti la sua propensione alla solidarietà. E non potrebbe in fondo essere altrimenti, se pensiamo alla penetrazione della cultura cattolica nel nostro tessuto sociale. Il coworking, ovvero la condivisione di un luogo da parte di lavoratori con storie professionali differenti, ha preso piede anche come modello di imprenditorialità sociale. Tra l’altro, non solo nelle città, come avviene in tutto il mondo, ma anche in contesti rurali.

NELLA DECLINAZIONE ITALIANA

DI QUESTO SISTEMA È PECULIARE

LA PROPENSIONE ALLA SOLIDARIETÀ

CHE SI INNESTA SUL TESSUTO

CULTURALE CATTOLICO

INSIEME È MEGLIO A parte pochi casi di successo, dunque, la sharing economy è un fenomeno ancora poco sviluppato in Italia. Secondo la mappatura realizzata da Collaboriamo! e Phd Media, nel 2014 erano attive 138 piattaforme collaborative, di cui oltre 40 di crowdfunding e 97 per la condivisione di beni e servizi. Il crowdfunding è una forma di finanziamento collettivo attraverso il quale un gruppo di persone sostiene un determinato progetto.

Dell’altra categoria fa invece parte lo sharing inteso in senso stretto, ovvero l’utilizzo in comune delle risorse più svariate, dall’automobile a una stanza per pernottare, dalle conoscenze al tempo libero; il bartering, lo scambio di beni e servizi tra individui; e infine il making, ovvero l’autoproduzione, partendo dall’hobbismo per arrivare alla fabbricazione digitale. Tra i frequentatori delle piattaforme collaborative italiane, la fascia più presente è quella dei 25-34enni, più donne che uomini. Seguono i 35-44enni e, infine, allo stesso livello, i 18-24enni e i 45-54enni. Complessivamente uomini e donne si equivalgono. I fondatori dei servizi collaborativi italiani sono invece in larga prevalenza di sesso maschile (78%). In Italia l’economia condivisa si è sviluppata soprattutto nelle regioni settentrionali.

Il modello di business prevalente (oltre il 40%) è fondato sulla percentuale sul transato, seguito in ordine di classifica dagli abbonamenti, dalla pubblicità e dalle sponsorizzazioni di grandi marchi. Il 21% dei servizi non ha invece individuato ancora un modello di business, a testimonianza di una maturità imprenditoriale ancora poco diffusa. Oltre la metà delle piattaforme ha tra l’altro utilizzato fondi propri per lanciare il proprio servizio. Quasi un quarto è invece ricorso al Venture Capital o all’Angel Investment, il 14% a finanziamenti pubblici. La diffusione dei servizi collaborativi è frenata insomma dalla mancanza di investimenti, come d’altronde sta accadendo a tutto il sistema imprenditoriale del Paese. Forse solo nel momento in cui la crescita sarà robusta, e le risorse finanziarie a disposizione del mercato saranno maggiori, la sharing economy potrà fare un salto di qualità anche da noi. La ripresa, di cui si intravedono i primi segnali, appare ancora però troppo modesta perché questo percorso virtuoso possa concretizzarsi.

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