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Per il bene della società

Benché il Buddha abbia rinunciato ai propri averi per un’esistenza frugale, i suoi insegnamenti non demonizzano la ricchezza. Purché non si trasformi in un idolo, ma resti uno strumento per il raggiungimento di scopi più alti

Quando incontrò per la prima volta Siddhartha Gautama, cioè il Buddha, il ricco mercante Sudatta si presentò da lui dopo aver trascorso una notte quasi insonne. «Spero tu abbia dormito bene», disse Sudatta al Buddha. «Dorme sempre bene colui che non è legato al piacere dei sensi e alla brama del possesso», rispose subito il Buddha che, da quel momento in poi, instaurò con Sudatta un intenso dialogo, fino a trasformare il ricco uomo d’affari in uno dei suoi discepoli più fedeli, che assunse il nome di Anathapindika, cioè benefattore degli orfani e degli indifesi. Fu proprio il mecenate Anathapindika, infatti, a comprare una radura nel boschetto di proprietà del principe Jeta, dove sorse il primo monastero buddista della storia, che divenne poi un importantissimo luogo di meditazione. Questo incontro tra un ricco mercante impegnato negli affari e un profeta ormai dedito all’ascetismo rappresenta un buon punto di partenza per analizzare il complesso rapporto tra la grande tradizione religiosa del buddismo, capace di radicarsi in gran parte dell’Asia, con la concezione del denaro e della ricchezza.

LE ORIGINI

Il Buddhismo o Buddismo è una delle religioni più antiche del mondo e ha origine dagli insegnamenti di Siddhartha Gautama (non Siddharta come diffuso solo in Italia per un errore, mai corretto, nella prima edizione dell’omonimo romanzo di Herman Hesse), che visse probabilmente tra il 566 a.C. e il 486 a.C.. A 35 anni, Siddhartha Gautama, proveniente da una famiglia ricca, scelse la vita ascetica e assunse il nome di Buddha (in sanscrito significa risvegliato, illuminato)

SPIRITUALITÀ LAICAPrima dell’arrivo di Anathapindika, infatti, le comunità di monaci buddisti delle origini (siamo nel VI secolo a.C.) vivevano un’esistenza a completo contatto con la natura: peregrinavano da un villaggio all’altro e, durante le notti, cercavano rifugio nei boschi, per dormire tra le radici degli alberi, senza un vero tetto sulla testa. La nascita del primo monastero buddista, dove Anathapindika si curò di costruire celle per il pernottamento, una sala da pranzo, una sala per le riunioni e un muro di cinta per proteggerne la proprietà, rappresenta dunque un momento di svolta per la comunità monastica. La vita dei discepoli del Buddha diviene cioè leggermente meno “selvaggia”, senza però perdere quel carattere di ascetismo e di distacco dai bisogni materiali più mondani. Nel contempo, la figura di Anathapindika incarna un nuovo ideale di spiritualità laica: quella del ricco mercante che, pur non appartenendo alla comunità monastica, si adopera per assicurarne il sostentamento grazie alla disponibilità di denaro e di beni materiali. Nasce così una figura inedita di devoto, ben descritta da Giorgio Renato Franci, nel saggio Il Buddismo (Edizioni Il Mulino). Scrive Franci nella sua opera: «Il Buddismo è come un percorso che si può compiere attraverso due strade». La prima è quella seguita direttamente dai monaci, che sono degli autentici «professionisti della spiritualità, capaci di puntare direttamente verso la vetta». L’altro percorso, che avviene per tappe intermedie, è invece quello seguito dai laici, i quali possono comunque praticare le virtù buddiste «in forma attenuata, pur rimanendo nel mondo del lavoro, della produzione e della competizione». Uno dei motivi di merito per i devoti laici, secondo l’etica buddista, è proprio il comportarsi come Anathapindika, cioè «mantenere la comunità monastica, arricchendo di beni spirituali il proprio tesoro e impoverendolo, per quanto possibile, di beni materiali».

TRE PRINCIPI CHIAVE

Utthanasampada: essere diligenti nel lavoro e nell’assunzione delle proprie responsabilità. Sviluppare le proprie competenze professionali e cercare mezzi efficaci per il raggiungimento degli obiettivi

Arakkhasampada: proteggere la propria ricchezza e i frutti che ne derivano, evitando che si deteriorino o vadano perduti

Samajavita: usare la propria ricchezza con moderazione med equilibrio, senza scegliere uno stile di vita troppo austero (caratterizzato dall’avarizia) né dissoluto (che porta allo sperpero di risorse)

LA RICCHEZZA VIRTUOSANel possedere la ricchezza, dunque, non c’è di per sé nulla di peccaminoso o di sbagliato anche se il Buddha, dopo una gioventù trascorsa negli agi, scelse di spogliarsi il più possibile dei bisogni materiali. Come ha scritto la professoressa Subhavadee Numkanisorn, docente alla Graduate School of Philosophy and Religion di Bangkok, l’attenzione dell’etica buddista non si concentra affatto sul possesso della ricchezza in sé, ma piuttosto sull’uso che se ne fa. In altre parole, il devoto deve adoperarsi affinché i beni materiali detenuti rechino giovamento all’intera società. Chi compete nel sistema economico per ottenere un arricchimento personale, ma anche per aumentare l’efficienza e il benessere della comunità, per esempio, opera certamente in sintonia con i principi buddisti. Si tratta dunque di un’etica che, secondo Numkanisorn, è perfettamente compatibile con i fondamenti dell’economia liberale e capitalistica, purché la ricchezza non diventi un fine e venga considerata sempre e soltanto come un mezzo per il raggiungimento di altri scopi. A questo proposito, Numkanisorn cita le parole che vennero pronunciate dal Buddha, quando criticò lo stile di vita di un uomo ricchissimo, che condusse un’esistenza estremamente frugale e austera, senza neppure lasciare al mondo un discendente pronto a ereditarla. I possedimenti di quest’uomo, destinati a «finire nelle mani delle autorità statali, a essere rubati dai ladri, distrutti da incendi o dispersi nell’acqua», sono per il Buddha come uno «stagno in una terra di demoni, con acqua fresca e pulita che, tuttavia, nessuno può bere». La ricchezza va dunque messa in circolo, secondo un principio di responsabilità sociale: il denaro e i beni materiali devono servire a migliorare il benessere della famiglia, dei dipendenti e del collaboratori di un impresa, devono essere utilizzati per fare beneficenza, oltre che per mantenere la comunità monastica dedita alla vita spirituale.

COME USARE IL DENARO

LA RICCHEZZA VA SFRUTTATA PER:

  1. Sostenere se stessi, la propria famiglia e i propri genitori

  2. Sostenere i propri amici e colleghi

  3. Proteggersi dai pericoli e dai danni

  4. Fare offerte ai defunti, ai parenti, ai luoghi di culto e per pagare le tasse

Fonte: Business and Buddhist Ethics di Subhavadee Numkanisorn

CAMBIAMENTO INTERIOREBenché il messaggio del buddismo contenga molta attenzione ai bisogni della comunità, secondo gli studiosi non può certamente essere considerato una dottrina di cambiamento sociale. Come sottolinea Giorgio Renato Franci, Siddhartha non si è mai proclamato sovrano del mondo né depositario della parola di Dio. Al Buddha, infatti, interessa principalmente la trasformazione degli uomini in esseri “svegliati”, capaci di raggiungere la felicità attraverso un percorso interiore, e non tramite un cambiamento degli assetti sociali. Non a caso, pur avendo avuto un’espansione concentrata nel continente asiatico, la religione buddista ha trovato terreno fertile in contesti molto diversi tra loro, dal punto di vista economico e sociale: in Giappone o in Corea, cioè in nazioni industriali avanzate che hanno sposato il capitalismo moderno, così come in Paesi ancora in via di sviluppo o prevalentemente agricoli come la Cambogia, il Laos o lo Sri Lanka. C’è poi un altro fenomeno significativo che ha fatto molto discutere negli ultimi anni: il progressivo diffondersi del buddismo in Occidente, dove raccoglie sempre più adepti (si parla di almeno 75 mila fedeli soltanto in Italia e di milioni di persone in Europa e negli Stati Uniti). Secondo diversi studiosi, un contributo significativo a questa penetrazione è giunto dal crescente rifiuto di molti dogmatismi religiosi e ideologici, oltre che dalla globalizzazione delle culture e dal sempre più intenso contatto con l’Asia. Ma c’è anche chi, come il filosofo croato Slavoj Zizek, ha bollato queste infatuazioni dell’Occidente per la spiritualità orientale come «cose utili soltanto a vendere giornali o prodotti al supermercato». In pratica, il diffondersi del buddismo (ma anche del taoismo) secondo Zizek non sarebbe altro che un surrogato dell’ideologia dominante del tardo-capitalismo, ormai affermatosi su scala globale. In un sistema economico come quello attuale, che provoca enormi sconvolgimenti sociali e costringe a sopportare stili di vita troppo veloci dettati dal progresso tecnologico, la scoperta della spiritualità orientale appare dunque come una sorta di consolazione, un piccolo rimedio contro lo stress, per conservare un po’ di pace interiore e serenità. Questo, almeno, è quello che pensa Zizek.

PERCHÉ LA RICCHEZZA NON DIVENTI UN IDOLO

Il punto di vista di Maria Angela Falà, vicepresidente dell’Unione Buddhista Italiana

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Nato in Oriente, il buddismo ha trovato terreno fertile in contesti molto diversi tra loro dal punto di vista economico e sociale: da Nazioni industriali avanzate come Corea e Giappone a Paesi ancora in via di sviluppo o a prevalenza agricola come Cambogia e Laos