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Nel segno del Dharma

L’induismo annovera il benessere personale tra i quattro scopi principali dell’esistenza umana, purché la brama di ricchezza non spinga a danneggiare gli altri e la natura

«Io adoro Maha Lakshmi che distrugge ogni tristezza». Recita così il passo di un inno religioso dedicato a una delle divinità più venerate dell’induismo. Si tratta della dea della ricchezza e dell’abbondanza Lakshmi (chiamata talvolta anche Sri), consorte di Visnu e madre del dio dell’amore Kama. Raffigurata sempre come una donna molto bella, dotata di quattro mani, adorna di gioielli e seduta su un fiore di loto, la dea Sri viene spesso invocata da milioni di fedeli indù che le chiedono un po’ di benessere materiale o di proteggere sempre i loro guadagni. Ma Lakshmi, secondo il credo religioso induista, è una divinità che frequenta soltanto le case pulite e abitate dalla gente che lavora sodo, mai quelle dei pigri o dei fannulloni. Questo atteggiamento della dea (o deva, secondo la più corretta denominazione di origine sanscrita) fa capire bene quale sia da sempre la concezione del denaro e della ricchezza nella tradizione dell’induismo, una confessione religiosa che oggi conta circa un miliardo di adepti in tutto il mondo, di cui oltre l’80% si concentra nella Penisola indiana. Per un fedele indù, pregare la divinità al solo scopo di ottenere benessere materiale non è affatto un peccato. Anzi, per un buon padre di famiglia può essere persino un dovere, se dai suoi guadagni e dalla sua ricchezza dipende il sostentamento di altre persone, in particolare dei figli. Ma l’arricchimento, secondo l’etica induista, non può essere fine a se stesso. Deve avere sempre un collegamento con il lavoro e con profondi valori morali e deve far parte di un disegno divino più ampio, che definisce l’intero percorso di vita del fedele.

IN BREVE

Tra le più importanti e antiche confessioni religiose del mondo, l’induismo oggi conta circa un miliardo di fedeli, di cui oltre 800 milioni in India. Più che una singola religione in senso stretto, può essere considerato un insieme di tradizioni, credenze e correnti teologiche che hanno una matrice comune. Pur basandosi sull’autorità delle sacre scritture (i Veda), non è una confessione dogmatica o soggetta a una gerarchia. È una religione monoteista che crede nell’esistenza di un solo Dio, il quale si manifesta però in varie modalità e forme. Per questo i fedeli indù venerano formalmente diverse divinità, che hanno tuttavia un’unica essenza.

GLI OBIETTIVI DELLA VITA

L’uomo, durante il suo cammino terreno, secondo la visione indù, deve realizzarsi armoniosamente e perseguire la felicità attraverso quattro obiettivi fondamentali (i Purushartha). Il primo è il Dharma, il principio dell’armonia, che consiste nell’agire secondo una legge etica universale, in grado di far mantenere al cosmo il proprio ordine. Poi c’è l’Artha, cioè il benessere personale, anche in relazione alle condizioni materiali di vita e ai mezzi necessari per mantenere un buon stato di salute. Il terzo obiettivo è il Kama, cioè il desiderio che sta alla base dei piaceri sensoriali, purché siano conformi al principio del Dharma. Il quarto e ultimo fine della vita è invece il Moksha, la liberazione, che rappresenta il compimento di un cammino evolutivo. Attraverso il Moksha, che avviene dopo un lungo ciclo di incarnazioni e di schiavitù dell’ego, ogni essere vivente riconosce la propria natura divina o, per meglio dire, assume la consapevolezza che l’unica realtà esistente è Dio, al di là dell’illusorietà del mondo. Nell’induismo, come nel buddismo, non vi è dunque alcuna mortificazione dei sensi né del benessere materiale. In altre parole, il fine dell’arricchimento personale, racchiuso nell’Artha, non appare in contrasto con l’etica religiosa, purché avvenga nell’ambito di un disegno divino che governa il cosmo. Anche nel caso della religione indù, come per il buddismo, è bene tuttavia evitare troppo facili semplificazioni, pensando che vi sia un sistema di valori assai indulgente verso l’accumulazione di soldi e ricchezze.

PER IL BUSINESS

Innanzitutto, va ricordato che il termine Artha, oltre a identificare l’obiettivo della prosperità economica in senso stretto, può significare il perseguimento di uno stato di benessere generale, che include molti altri aspetti come i progressi di carriera o, più semplicemente, una condizione sociale soddisfacente e un buon stato di salute. Inoltre, non bisogna mai dimenticare che l’Artha è soltanto una parte di un disegno molto più complesso, che deve caratterizzare l’esistenza umana. Come hanno scritto i due saggisti indiani Amulya e Bijaya Mohapatra (nel libro Hinduism: Analytical Study, Mittal Edizioni), se paragonassimo i quattro obiettivi fondamentali dell’esistenza a un albero, potremmo affermare che le radici sono rappresentate dall’etica del Dharma, i rami dall’Artha, i fiori dal Kama e i frutti dal Moksha. Il benessere materiale dell’Artha è dunque soltanto un ramo che fa germogliare nel tempo la pianta, cioè consente all’uomo di compiere il suo intero percorso verso il divino. Sulla base di queste considerazioni, Amulya e Bijaya Moha-patra hanno dunque analizzato nel dettaglio la concezione del denaro nell’etica e nella tradizione induista. Secondo i valori religiosi indù, la moneta è un mezzo per ottenere determinate cose e una misura del valore, di cui non si può fare a meno quando si vive nel mondo materiale. Ma i soldi possono esser anche un Upadhi, cioè un valore illusorio e una limitazione che impedisce all’essere umano di raggiungere l’obiettivo supremo del Moksha, cioè di ricongiungersi con la divinità.

PROPRIETÀ E CONCEZIONE DEL DENARO

UN MEZZO NECESSARIO Per la tradizione religiosa indù, i soldi sono un mezzo necessario per lo scambio di beni. Il fedele può pregare per la protezione dei propri guadagni e della propria ricchezza, per assicurarsi condizioni di vita dignitose e per accrescere il suo benessere materiale o quello della famiglia.

MISURA DEL VALORE Il denaro è inevitabilmente una misura del valore di un bene, cioè un elemento di cui non si può fare a meno nel mondo terreno e materiale. Viene considerata come un comportamento virtuoso anche la tendenza al risparmio di denaro, per affrontare i bisogni materiali (propri e della famiglia) in caso di necessità improvvise.

UPADHI Il denaro può essere però anche un Upadhi, una limitazione che impedisce all’uomo di raggiungere il Moksha, cioè l’obiettivo supremo dell’esistenza umana, che consiste nel riconoscere che l’unica realtà esistente è Dio, al di là dell’illusorietà del mondo.

USURA Nei testi sacri dell’India antica (i Veda), vi sono riferimenti all’usura già dall’ottavo secolo prima di Cristo. La pratica di concedere denaro in prestito dietro interessi viene considerata con disprezzo. Con il passare del tempo, però, il concetto di usura si è modificato ed è stato circoscritto ai soli prestiti con interessi troppo elevati, escludendo, dunque, la condanna delle semplici operazioni di credito.

LA RELAZIONE CON IL CAPITALISMO MODERNO

Se la concezione del denaro e della ricchezza nell’etica indù sono facilmente comprensibili, più complessa è invece un’analisi sociologica e storica del rapporto che lega questa religione allo spirito e ai principi dell’economia capitalistica e di mercato. La storia dell’induismo s’identifica in buona parte con quella dell’India, che oggi, seppur tra mille contraddizioni, sembra avviata inesorabilmente a diventare un Paese avanzato in campo industriale e una potenza economica su scala planetaria. In passato, però, non sono mancati gli studiosi che hanno ravvisato nella religione indù un forte ostacolo alla diffusione dello spirito del capitalismo moderno. Tra questi c’è indubbiamente Max Weber, con il suo saggio Induismo e Buddhismo, scritto nel 1916-17, quando l’India era ancora un Paese economicamente molto arretrato. Com’è ben noto, Weber ha sempre intravisto il germe della nascita del capitalismo moderno nella diffusione in Europa dell’etica del cristianesimo protestante e in particolare del calvinismo, che ha spostato maggiormente l’attenzione dell’uomo verso le opere terrene. Nelle religioni orientali, invece, il sociologo tedesco individua caratteristiche molto diverse, poiché sia il buddista sia l’induista si realizzano al di fuori del mondo terreno, in un percorso che va al di là del tempo e dello spazio. A questo substrato culturale e religioso, si aggiunge anche la tradizionale suddivisione della società indiana in caste, che rappresenta indubbiamente un ostacolo alla mobilità sociale, tipica delle economie di mercato avanzate. Sulla scorta del pensiero Weber, diversi studiosi considerano l’ordinamento castale fortemente legato o addirittura connaturato all’induismo, poiché questo credo religioso è sostanzialmente ereditario e si diventa indù per il semplice fatto di essere nato da una famiglia indù. Non manca, però, chi ha sollevato dubbi sull’“equazione” tra l’induismo e il sistema delle caste. È il caso, per esempio, dello storico delle religioni Giorgio Renato Franci che, nel saggio Induismo (edizioni Il Mulino), ha messo in evidenza due aspetti importanti. Innanzitutto, a detta di Franci, la tendenza a organizzarsi in gruppi ereditari chiusi è «tipica della società indiana in generale», visto che coinvolge anche gli aderenti ad altre religioni e non soltanto all’induismo. Inoltre, secondo il noto studioso, da diverso tempo vari induisti si dichiarano totalmente estranei, se non addirittura contrari, al sistema castale. Con l’ingresso dell’India nella modernità, anche le analisi del passato sull’etica indù, a cominciare quella di Weber, sembrano dunque aver bisogno di una rivisitazione.

I SOLDI SONO UN MEZZO, NON UN FINE

Intervista a Svamini Hamsananda Giri, vicepresidente dell’Unione Induista Italiana