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Export, i nuovi Eldorado

Non solo Cina, ma anche Singapore e Messico, Brasile e India e poi Arabia Saudita e Africa finanche Corea. È questa la geografia che va costruendosi attraverso la mappa delle esportazioni made in Italy. Perché il futuro delle nostre aziende è sempre più all’estero

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Parcheggiare una fuoriserie davanti al salotto di casa è l’ultima trovata di alcuni milionari di Singapore. Sono quei pochi fortunati che vivono nell’esclusivo grattacielo Hamilton Scotts, dove un ascensore speciale permette di trasportare l’auto fino ai piani alti, per posizionarla in casa, in bella vista davanti a una mega-vetrata. Nei garage volanti dell’Hamilton Scotts, simbolo del lusso sfrenato, si trovano quasi sempre bolidi italiani: una Lamborghini, una Ferrari o magari una Maserati, i modelli più ambiti. In questa minuscola, ma affollata, repubblica asiatica, che ha più di 5 milioni e mezzo di abitanti, tra cui quasi 200 mila milionari, il made in Italy va alla grande. E non solo grazie alle auto sportive, ma anche alla moda, il lusso, gli alimentari di qualità e tutto ciò che tiene alta la bandiera dell’industria italiana nel mondo. Singapore è una nuova frontiera per l’export del nostro Paese e fa parte di un insieme di circa 30 mercati emergenti che la Fondazione Edison, in collaborazione con la società di consulenza Gea, ha individuato come un potenziale terreno di conquista per le aziende manifatturiere di tutta la Penisola.

LE PROSSIME METE. A parte la Turchia, la Russia, gli Emirati Arabi e la Cina (i Trec) dove le esportazioni italiane hanno raggiunto da tempo un volume assai consistente (circa 35 miliardi di euro nel 2012), per i ricercatori di Gea e della Fondazione Edison ci sono molti altri mercati di sbocco in cui i prodotti fabbricati a Sud delle Alpi possono conquistare uno spazio significativo. Il primo gruppo è rappresentato dai nostri Next 11, cioè un insieme di nazioni dove il valore complessivo dell’export italiano ha già superato la soglia dei 38 miliardi di euro (tra 2 e 5 miliardi in ciascun mercato) e sta seguendo un costante trend di crescita da almeno sei anni, interrotto qua e là soltanto da qualche piccolo calo, dovuto all’andamento della congiuntura economica. Ne fanno parte, per esempio, il Brasile, l’India, Hong Kong, l’Arabia Saudita o la Corea del Sud, ma anche i Paesi del Nord Africa come la Tunisia, l’Egitto o la Libia, tuttora pieni di potenzialità nonostante le turbolenze politiche legate alla Primavera araba. Senza dimenticare, poi, altre realtà come il Messico che di recente Marco Mattiacci, a.d. di Ferrari North America, non ha esitato a definire «la nuova Cina», grazie al numero crescente di ricchi benestanti, disponibili a metter mano al portafoglio per comprare un bolide della casa di Maranello.

I FUTURE 22. I ricercatori di Gea e Fondazione Edison hanno poi individuato un’altra ventina di Paesi emergenti che hanno dimensioni più modeste ma, a parte rare eccezioni, presentano un’economia dinamica o in crescita e hanno già significativi rapporti commerciali con il nostro Paese. Di questo gruppo, chiamato dagli analisti Future 22, fa parte per esempio la stessa Singapore, accompagnata da altri Paesi dell’Asia, come la Thailandia, o dell’Europa dell’Est, come la Serbia. Pur avendo ancora notevoli margini di crescita, l’export italiano verso i Future 22 oggi ha un valore di circa 25 miliardi di euro, oltre l’1,5% del Pil nazionale.

LA MECCANICA FA DA TRAINO. Tra i prodotti che le nostre aziende riescono a piazzare nelle nazioni in via di sviluppo, non ci sono soltanto quelli che da sempre caratterizzano l’Italian style, come i capi di abbigliamento o le calzature, i beni di lusso, i generi alimentari o le auto sportive. In realtà, a fare da traino alle esportazioni sono i macchinari industriali, segmento in cui siamo una potenza internazionale, seconda soltanto alla Germania. I manufatti della meccanica sono quasi ovunque la prima categoria di beni esportati dall’Italia, in Cina (per un valore di quasi 3,5 mld all’anno) così come in Russia (2,6 mld), in Brasile (1,8 mld) o in Messico (1,1 mld). Fa eccezione solo Hong Kong, i cui vertici della classifica sono occupati dai prodotti tessili e dalla pelletteria (con un valore di 2,2 mld). Persino a Singapore arrivano ogni anno dal nostro Paese macchinari e apparecchi industriali per un valore di oltre 430 milioni di euro. I gioielli del made in Italy, insomma, non finiscono solo in bella vista ai piani alti dell’Hamilton Scotts, ma anche nelle fabbriche.

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ESPORTARE SÌ, CON GIUDIZIO. Alcune mosse giuste, per non commettere errori irrimediabili. Sono quelle suggerite dall’Osservatorio creato dalla Fondazione Edison e dalla società di consulenza Gea alle aziende del made in Italy che intendono aggredire i mercati emergenti. Avere prodotti d’eccellenza, infatti, spesso non basta a far lievitare i volumi dell’export. Per penetrare in alcuni Paesi in via di sviluppo, soprattutto quelli più lontani, bisogna muoversi studiando attentamente le proprie strategie. Innanzitutto, l’azienda deve selezionare bene le aree più profittevoli, analizzando i dati o le previsioni delle società di ricerca, senza illudersi di poter conquistare tutti i mercati emergenti in un colpo solo. Pure l’eventuale acquisizione di imprese estere (o la costituzione di join-venture) deve essere messa in cantiere con prudenza, poiché la scelta del partner sbagliato rischia di compromettere i piani di espansione. Inoltre, occorre destinare notevoli risorse anche alle attività post-vendita, senza delegare troppi compiti ai distributori locali. Questa considerazione vale soprattutto per i prodotti del made in Italy più sofisticati (per esempio, i macchinari). Le società italiane devono stare al fianco della clientela anche dopo aver concluso le trattative (cioè nelle attività di installazione e manutenzione dei prodotti) ponendo così le basi per la nascita di un rapporto commerciale di lunga durata. Secondo gli esperti di Gea e della Fondazione Edison, insomma, per avere successo nei mercati emergenti bisogna partire dal cliente e dall’analisi dei suoi bisogni, senza imboccare scorciatoie. I prodotti del made in Italy, infatti, pur essendo di grande qualità, incontrano spesso barriere commerciali, burocratiche e culturali che, al di fuori dei confini europei, sono difficilissime da superare. Infine, per gli analisti esiste un altro fattore critico di successo per l’export italiano: le risorse umane. Alle attività nei Paesi emergenti vanno destinate le migliori professionalità, dosando però la quantità di personale dedicata a questi mercati.

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Lo skyline dello Stato-isola di Singapore