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Sostenibilità

Mettere il welfare in circolo

Da dove viene, come sta e in che cosa si evolverà il Terzo settore che punta a diventare un network di aziende sociali. L’obiettivo? Dare vita a una sussidiarietà virtuosa che si nutra del confronto pubblico-privato

«L’elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere. Perché vivere è produrre, e l’elemosina non aiuta a produrre». Lo dicevano già i frati francescani nel 1300, riprendendo in parte anche la lezione della Carta Caritatis del 1137, editata, in terza versione, da Bernardo di Chiaravalle. “Essere mantenuti” da un voucher per comprare il cibo è un’offesa della dignità umana: lo avevano capito questi antichi sapienti, eppure in Italia – un Paese dove volontariato, servizio ai bisognosi e il “non profit” ante litteram hanno trovato un terreno ideale sin da tempi antichi – ancora oggi c’è chi non comprendere un simile concetto.Il quadro potrebbe cambiare in fretta grazie alla recente riforma del Terzo settore, varata dopo anni di crescita del numero di soggetti attivi. La nuova norma, che ha innanzitutto abolito il regime concessorio – eredità di una certa concezione totalitaria –, ha dotato di una configurazione giuridica le imprese sociali, conferendo loro un titolo di rappresentanza per sedersi ai tavoli sui temi del welfare, ma soprattutto un’autentica impostazione aziendale che le renderà protagoniste attive del sistema di sussidiarietà circolare destinato ad affermarsi.Per capire la portata della novità, bisogna però fare un passo indietro. Il sistema di welfare che l’Italia si è data nel secondo Dopoguerra ricalca il modello anglosassone. A dare origine a tale visione era stato il pensiero originale di John Keynes da un lato e l’azione fattiva di Lord William Beveridge dall’altro, che nel 1942 riuscì a far approvare il cosiddetto “Pacchetto Beveridge”. Nel provvedimento erano previste, tra le altre cose, l’istituzione del servizio sanitario nazionale, l’assistenza per le persone in difficoltà e la gratuità delle prestazioni educative. Secondo questo modello, come disse lo stesso Beveridge, lo Stato è responsabile delle situazioni di bisogno dei cittadini «dalla culla alla bara». A onor del vero, già in precedenza non erano mancati interventi dei governi nei confronti delle classi povere. Basti ricordare i provvedimenti di Otto von Bismarck in Germania o dei governi italiani dopo la Grande guerra. La differenza sostanziale dopo il 1942 è che il welfare assurge a modello di ordine sociale, mentre prima era un insieme slegato di singoli provvedimenti, per quanto ben calibrati e funzionali.Si afferma così l’idea che Keynes aveva esposto nel 1939 in un saggio poco noto, Democracy and Welfare. Dice che se la democrazia liberale vuole avere un futuro tranquillo, deve ottemperare all’esigenza di coprire i rischi e le necessità dei cittadini. Nel periodo del Comunismo e del Nazifascismo, dunque, l’idea del welfare state non nasce con una visione pietistica, ma come garanzia di ordine sociale – per preservare la società da attacchi che ne minerebbero la struttura – e come forma di sostegno della domanda interna. Keynes aveva capito che, in un’economia di mercato, se la povertà dilaga tutto il sistema sociopolitico va in crisi.

LA RIFORMA

HA DATO A QUESTE IMPRESE

UN’IMPOSTAZIONE CHE LE RENDERÀ

PROTAGONISTE DEL FUTURO

ORIGINI E APPLICAZIONI Il sistema europeo nasce in alternativa a quello americano, datato 1919 e figlio dei grandi industriali, tra cui Ford, Rockefeller, Carnegie. I magnati firmarono un patto in cui si impegnavano a provvedere alle esigenze di dipendenti e famiglie nella sanità, nell’educazione e nell’assistenza. Quest’impegno è quello viene definito “welfare capitalism”, nel quale le imprese trasmettono alla società una parte dei ricavi in ossequio al principio di restituzione. Questo modello, però, è rivolto solo a quanti lavorano nelle aziende “coinvolte”: la fondamentale correzione di Keynes è nell’enunciazione di un indispensabile universalismo dei provvedimenti per evitare guerre tra poveri. Il principio guida è quello della redistribuzione e perciò deve essere lo Stato, dopo aver riscosso le tasse, a fornire i servizi indispensabili.Il modello europeo è stato declinato in quattro principali versioni: scandinava, anglosassone, dell’Europa continentale (Germania) e mediterranea che ha attecchito in Grecia, Portogallo, Spagna e Italia. La sua applicazione è stata accolta con successo fino alla crisi degli anni ’90, dovuta allo squilibrio tra i costi e i ricavi. A causare lo smottamento è stata la sottovalutazione di un problema di fondo: se le entrate dello Stato dipendono dal ciclo economico, quando l’economia frena, il gettito cala proprio quando aumentano le necessità di intervento. Il divario tra entrate e uscite è stato così facilmente colmato per anni attraverso l’indebitamento pubblico. L’inizio del processo di unificazione monetaria con il Trattato di Maastricht nel 1992, però, ha svelato la debolezza del modello e la sua insostenibilità economica.C’è poi una seconda ragione che spiega la crisi del welfare state, che è di natura fondativa: la sua impostazione è paternalistica, cioè non spinge i portatori di bisogni a essere soggetti attivi, ma li considera solo oggetto della beneficenza pubblica. Il welfare redistributivo non ha consentito né spinto chi riceveva un aiuto a diventare corresponsabile di quelle risorse né di ricambiare ad altri, quando possibile, l’appoggio ricevuto. Paradossalmente, la statalizzazione della beneficenza ha ridotto il tasso di solidarietà, deresponsabilizzando i cittadini che si sentono legittimati a rinunciare all’impegno diretto limitandosi a pagare le tasse. Il welfare state, in sostanza, ha segato il ramo sul quale poggiava.

IL FUTURO Tutti questi fenomeni hanno portato 20- 25 anni fa alla nascita di una riflessione su un modello diverso. Da qui nasce il terzo approccio, la “welfare society”, secondo il quale non è più lo Stato, bensì la “società del benessere” – ossia l’intera collettività – a farsi carico delle esigenze di tutti. Altri preferiscono definire tale impostazione “welfare generativo”, in quanto produce da sé le risorse di cui necessita attraverso il coinvolgimento attivo di quanti hanno ricevuto aiuto. Ed è questa la frontiera verso cui poco alla volta si sta andando. Ormai non è più accettabile, infatti, che una persona, supportata in un momento di bisogno, non si senta moralmente impegnata non a restituire quanto ricevuto – sarebbe uno scambio –, ma a mettersi almeno a disposizione di quanti si troveranno in difficoltà. Qual è il principio ispiratore del welfare generativo? Quello di sussidiarietà, previsto negli artt. 118-119 della nuova Costituzione, che sostituisce quelli di restituzione e di redistribuzione, ma che deve essere “circolare”. Limitandosi a una visione orizzontale di questo concetto, infatti, non si può garantire l’universalismo che – come detto – è il principio basilare di un welfare efficace e che può attuarsi solo con la partecipazione anche delle istituzioni. La sussidiarietà circolare prevede, dunque, una triangolazione tra enti pubblici (Stato, Regioni, Comuni ecc), il mondo della business community e le imprese del cosiddetto Terzo settore. Solo l’interazione sistemica tra i tre vertici – sulla base, ovviamente, di predefiniti protocolli che eliminino le lungaggini – permette di definire le priorità di intervento nei diversi ambiti e, solo dopo, le modalità di gestione. Ciascun vertice ha il suo compito: il pubblico deve garantire che nessuno venga escluso, la business community può contribuire con le proprie risorse – supplementari rispetto a quelle dedicate al welfare capitalism – e i soggetti del Terzo settore devono condividere informazioni e know how per realizzare gli interventi più urgenti.Sarà questo il modello che si affermerà nei prossimi anni, anche se servirà ancora del tempo per completare la transizione: queste idee sono in circolazione da poco tempo e implicano la privazione di alcune prerogative dal raggio d’azione degli enti pubblici. E la politica è gelosa di questi ambiti, perché il vero potere di un amministratore consiste nel budget che può gestire secondo la propria visione. Sedersi a un tavolo per discutere le priorità rappresenza – a giudizio di tanti – una perdita di supremazia. Allo stesso modo molti imprenditori si chiedono perché dovrebbero impegnarsi al di fuori dei propri confini aziendali, e soprattutto dopo aver pagato le tasse. Infine, toccherà anche al Terzo settore fare un balzo in avanti, trasformando i propri operatori in autentici “imprenditori sociali” attraverso lo sviluppo dei talenti di cui sono portatori e l’acquisizione di nuove competenze. L’impresa sociale sarà un’azienda a tutti gli effetti e questa è una legittimazione non da poco. Finora, i membri del Terzo settore sono stati straordinari esecutori, ma non sono stati capaci nella grande maggioranza dei casi di fare impresa sociale: sarà questa la sfida per loro nei prossimi anni, da vincere assolutamente perché non prevede alternative. Qualche esperienza di welfare generativo esiste già, ma solo a livello locale in realtà comunali o intercomunali. In alcune città, l’iniziativa è partita dai soggetti di Terzo settore che hanno convinto gli altri. In altri casi è stato l’ente pubblico a favorire la creazione del triangolo magico. In altri ancora gli imprenditori “illuminati”, dopo aver creato un welfare aziendale, hanno voluto fare di più per non creare discriminazioni in piccoli territori. Senza dimenticare lo storico divario Nord- Sud, queste iniziative stanno prendendo piede su tutto il territorio.

LA STATALIZZAZIONE DEL WELFARE

HA RIDOTTO IL TASSO DI SOLIDARIETÀ

DERESPONSABILIZZANDO I CITTADINI

GRANDE POTENZIALE La tradizione storica accennata all’inizio dell’articolo non è comunque l’unico fattore di forza della Penisola. La Legge di Stabilità 2015, infatti, ha introdotto anche la figura della Società benefit, che è quell’impresa che persegue il profitto, ma allo stesso tempo un obiettivo di utilità sociale. Siamo il secondo Paese al mondo a introdurre le B Corporation, istituite originariamente negli Stati Uniti nel 2010. Le aziende “capitalistiche” potranno così impegnarsi per organizzare un’offerta in campo ambientale, scolastico e sanitario da affiancare al proprio core business. E non si può dimenticare poi il potenziale offerto dalla finanza di impatto sociale, detta comunemente “etica”, che dopo due decenni di storia ha mosso i primi passi nel Belpaese nel pieno della crisi e oggi marcia spedita. Il crowdfunding è uno degli strumenti a disposizione, ma si stanno diffondendo tante piattaforme che permettono di trovare finanziamenti a progetti di utilità sociale credibili. E poi c’è l’universo della sharing economy, la vera novità degli ultimi tempi e che non è solo l’“uberizzazione” dell’economia. Nei prossimi dieci anni tutti questi fenomeni cambieranno il volto del welfare tradizionale e sarà dunque necessaria una vigilanza attenta. Alla luce della mia esperienza alla guida dell’Agenzia del Terzo settore, la cui chiusura nel 2011 è stata un atto improvvido anche alla luce dei risultati conseguiti, posso dire che sarà necessaria l’istituzione di un’Authority dedicata. L’agenzia, infatti, non era uno strumento sufficiente perché non aveva poteri di ispezione e di sanzionamento. Mentre se vogliamo evitare rischi di degenerazione del welfare generativo, serviranno strumenti di intervento rapido che può avere solo un’ente di controllo, come l’Antitrust o la Consob.

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