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Attualità

A.A.A. cercansi manager della complessità

Le aziende hanno bisogno di persone con menti elastiche e creative, abituate a cogliere nessi e occasioni dove oggi vediamo solo ostacoli e limiti. Per farlo, però, serve ripensare l’organizzazione e il lavoro, ricominciando dalla formazione. Intervista a Piero Dominici, navigatore illuminato nella società delle crisi

Se c’è un termine inflazionato nella comunicazione è “crisi”. Cri­si di valori e ideologie, crisi economica, delle istituzioni, socia­le e culturale… Ma ci si dimentica che etimologicamente que­sta parola significa fondamentalmente “mutamento”, una fase di cambiamento che può essere letta bene o male, a seconda dei sistemi di riferimento. Proprio in relazione a tali sistemi, si leva potente la voce di Piero Dominici, sociologo, filosofo e docente di Comunicazione pubblica e Attività di intelligence dell’Univer­sità di Perugia, che sottolinea, già da molti anni, l’errore grave in cui indulge l’ecosistema socioculturale in tutte le sue manifesta­zioni: trattare cioè il sistema che abitiamo come se fosse «com­plicato», mentre è «complesso», anzi, iper-complesso, che ri­chiede figure ibride in grado di cogliere nessi e occasioni dove oggi vediamo ostacoli e limiti. Figure che Dominici ha definito i «manager della complessità».

Cosa intende per sistemi complessi e iper-complessi?Viviamo in un’epoca ancora fondata sull’idea che razionalità e prevedibilità governino l’azione sociale, che idolatra concet­ti come controllo e prevedibilità, illusioni di un vecchio para­digma organizzativo, il quale però segna ancora in profondità le istituzioni educative e formative. I sistemi complicati (meccanici, artificiali etc.) sono caratterizzati da interazioni lineari: A deter­mina B, l’input determina l’output. I sistemi complessi sono, per esempio, i sistemi biologici, sociali e relazionali, dove agiscono molte variabili. Tali sistemi non sono spiegabili sulla base dello schema causa-effetto dei tradizionali modelli lineari. Continuia­mo a pensare, progettare e paragonare le organizzazioni sociali a macchine, cioè sistemi complicati, composti da parti isolabili e modificabili singolarmente. E dietro a questa visione c’è il falso convincimento che il fattore tecnologico e giuridico siano non solo indispensabili – che è vero – ma anche sufficienti – che non è vero – per generare innovazione, efficienza e cambiamento. Si trascura completamente il fattore umano, sociale e relazionale, considerato come qualcosa che arrivi di conseguenza. Continu­iamo a educare al controllo, alla prevedibilità, alla raziona­lità (economica), poco consapevoli dei nostri limiti, della com­plessità e dell’ambivalenza dei processi organizzativi e sociali, messi ancor più sotto pressione dall’innovazione tecnologica e dalla rivoluzione digitale.

Eppure, l’obiettivo dichiarato dell’innovazione tecnologica è il mi­glioramento dei livelli di performance.Che viene misurata in termini esclusivamente quantitativi, men­tre è qualcosa di qualitativo. Misurare la qualità è una contrad­dizione in termini, ma è un qualcosa con cui bisogna confron­tarsi. I dati quantitativi sono fondamentali per individuare trend e definire condizioni accettabili di prevedibilità dei fenomeni. Ma, per esempio, gli effetti di un’azione di aggiornamento o for­mazione delle risorse umane non si possono valutare in termini quantitativi e, soprattutto, non nel breve periodo. Questo è uno dei motivi che, in presenza di contrazioni del budget, porta tan­te aziende a tagliare la formazione, nonostante si discuta molto della sua importanza. Dietro a tutto, ancora una volta, l’illusio­ne di poter gestire la complessità coinvolgendo, peraltro, sol­tanto quei saperi che sembrano più in grado di fornire certez­ze. Un sistema complesso è aperto e non lineare, si può provare a governarlo ma non si può controllare. L’importanza dei dati quantitativi non è in discussione, ma quando dobbiamo valuta­re, analizzare e provare a trasformare le organizzazioni sociali, dovremmo evitare di ripetere gli errori di sempre, consideran­dole come sistemi complessi, organismi viventi.

Dal suo ragionamento emerge l’inadeguatezza delle basi su cui si fonda la cultura organizzativa in generale, e aziendale in particolare.Definire una cultura organizzativa è complicato e complesso: è il dispositivo di controllo per eccellenza delle performance dei manager e della produttività. È il quadro di riferimento teorico all’interno del quale definire tutte le azioni e le simulazioni. Non si tratta di adeguare i processi formativi ed estenderli al progres­so tecnologico. Bisogna sradicarne le basi, incidendo sull’archi­tettura complessiva dei saperi e delle competenze. Stiamo già vivendo e abitando una civiltà iper-tecnologica, basata su siste­mi di automazione e simulazione, che marginalizzano l’umano e lo spazio della responsabilità, nell’illusione di poter eliminare l’errore e l’imprevedibilità dai sistemi. Siamo di fronte a un para­digma culturale che vede nell’eliminazione dell’errore e dell’im­prevedibilità la nostra possibilità di avvicinarci alle macchine, alla perfezione. Ma sono proprio gli errori che connotano l’es­sere umano e la sua libertà, che è in primo luogo la libertà di po­ter pensare di sbagliare ma anche di sbagliare tout court.

Al World Economic Forum 2018 è stato notato come la diffusione delle nuove tecnologie abbia ampliato le distanze sociali ed eco­nomiche. Dobbiamo aspettarci una società sempre più disuguale?Proprio nel momento storico della massima interdipendenza e interconnessione di tutti i sistemi e di tutte le reti, assistiamo al trionfo dei valori individualistici, con il progressivo indebo­limento del legame sociale. Questo deve richiamare l’attenzio­ne sul fatto che non saranno le tecnologie della connessione né il digitale a ricreare le condizioni del legame sociale. Saran­no una fenomenale opportunità soltanto se metteremo mano alla formazione, all’educazione, alla ricerca. Il complesso pro­cesso di cambiamento di paradigmi trova, infatti, le nostre isti­tuzioni educative e formative del tutto impreparate. Nell’ultimo Rapporto sulla conoscenza l’Istat ha confermato che scuole e università sono tornate a essere delle agenzie di selezione e non di emancipazione. L’origine geografica, culturale ed economica giocano un ruolo decisivo per definire il futuro dei nostri figli. E la mancanza di investimenti nei settori dell’educazione, della formazione e della ricerca, completa il quadro.

In che modo una formazione rivoluzionata può cambiare le cose?Stiamo formando meri esecutori di funzioni e di regole senza lo sguardo d’insieme. Sanno solo isolare e separare, senza trovare connessioni tra le parti. Dovremmo educare e formare a vede­re gli oggetti come sistemi e non i sistemi come oggetti. Tratta­re i sistemi complessi come fossero complicati significa partire dall’illusione di poter sempre e comunque controllare i feno­meni. Penso all’intelligenza artificiale e alle aspettative nei nuovi sistemi di automazione, di gestione delle informazioni, alle pre­tese di invulnerabilità delle nuove sofisticate tecnologie: ma il fattore umano è e sarà sempre quello decisivo.

Se una nuova formazione è la risposta alle utopie tecnicistiche, ser­virà una rivoluzione dei principi su cui gira oggi il mondo. Chi do­vrebbe promuovere questo cambio?Prima di riversare formazione a cascata serve un’analisi, rigo­rosa e profonda, delle esigenze educative e formative. L’ur­genza è finalmente percepita: l’Unione Europea, la Banca Mondiale, l’Unesco si stanno rendendo conto che non basta più investire sulle infrastrutture tecnologiche, occorre inve­stire sulle persone, rimetterle al centro. Se non vogliamo che queste parole rimangano sterili slogan, dobbiamo recupera­re le dimensioni complesse della complessità educativa: em­patia, creatività, autenticità, cultura dell’errore… dimensioni escluse dai processi educativi e formativi. Eppure, lo stesso errore è la base su cui si fondano la conoscenza scientifica e i meccanismi d’apprendimento.

Stiamo parlando di investimenti a lunghissimo termine. Oggi quale potrebbe essere un approccio efficace per il cambiamento di pro­spettiva? Dobbiamo partire dai manager della complessità?Quando parlo di manager della complessità non penso a figu­re che possano gestire i sistemi complessi, che per definizione non sono gestibili, ma a persone che siano educate e formate all’imprevedibilità. Nel passaggio dal semplice al complesso, stiamo assistendo a una crescita, in termini qualitativi e quan­titativi, delle variabili e dei parametri da valutare per tentare di comprendere i fenomeni sociali e culturali. Occorre forma­re persone e non soltanto individui, menti elastiche e creati­ve, figure ibride addestrate ad abitare i conflitti, i confini, le contraddizioni, la varietà, l’emergente, riconoscendo nel dia­logo tra i saperi il valore aggiunto. L’alternativa è persistere in un’ottica miope che guarda unicamente al mercato come rife­rimento per gli obiettivi dell’educazione e della formazione: un errore che rischiamo di pagare a caro prezzo, soprattutto se consideriamo la rapida obsolescenza di conoscenze e com­petenze che sta caratterizzando, e lo farà sempre di più, il con­testo sociale e lavorativo odierno.

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