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Euroboiate

Altro che nutella! Anche tlc, telline, ombrelloni e pajata. Ecco come l’unione europea, con le sue direttive, ostacola l’economia dei paesi membri. E favorisce, addirittura, l’imitazione dei prodotti tipici

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«Fiuuuuuuuu!», avrete pensato dopo aver letto che la Nutella non sarà bandita dalla vostra dispensa per via di una direttiva europea troppo restrittiva. La boutade – perché di boutade si è trattato – ha tenuto banco sui principali quotidiani italiani per qualche giorno, fino a quando non è stata smentita. In realtà al Parlamento europeo non si era mai discusso di limitare la promozione della crema alla nocciola più famosa al mondo perché alimento poco sano. Anzi: era appena stato accantonato il temibile meccanismo del “semaforo nutrizionale”, un’iniziativa dei Verdi che, se fosse passata, avrebbe introdotto l’utilizzo di segnali di colore verde, giallo e rosso, per l’appunto, sulla confezione dei prodotti alimentari classificati via via più “nocivi” per la salute. Chissà alla Nutella che colore sarebbe stato assegnato… Ma non è questo il punto. Il baccano mediatico che è cresciuto attorno a un semplice rumor è piuttosto l’allarme che in alcuni casi e su specifici temi le istituzioni comunitarie sono percepite dai cittadini e dalle imprese dell’Unione europea come un po’ troppo invadenti. Pensate anche alla reazione a dir poco sopra le righe della Ferrero che, parola di giornalista, è una delle maggiori aziende italiane che più tiene al riserbo: «La nostra grande preoccupazione per la Nutella», si è lamentato il vicepresidente Paolo Francesco Fulci, «è che oggi ci dicono di non fare messaggi promozionali, ma domani – e ci sono già alcune organizzazioni di consumatori che spingono in questo senso – ci faranno scrivere come sulle sigarette: “Attenti è pericolosa, favorisce l’obesità”, o magari ci metteranno delle tasse fortissime».Niente di tutto questo. Ma nel caso si fosse avverato l’anatema di Fulci non sarebbe stata la prima volta che l’Europa avrebbe frenato con la propria azione alcune delle economie dei singoli stati membri. Un paradosso? Non proprio. Dice Carlo Fidanza, eurodeputato del Pdl e membro della commissione Agricoltura: «Basti pensare che, tanto per rimanere in tema, tutte le decisioni in ambito agroalimentare, uno dei terreni di scontro più accesi delle politiche economiche comunitarie, sono prese cercando di bilanciare le esigenze di paesi come la Francia e l’Italia, fornitori non solo di materie prime, ma anche di prodotti finiti che rappresentano eccellenze della tipicità, e paesi come la Germania e la Gran Bretagna, ai quali interessa più che altro massimizzare l’efficienza della grande distribuzione». Fidanza sul suo sito Internet ha addirittura aperto una rubrica che si chiama “Europa da buttare”, dove segnala quelli che secondo lui sono gli eccessi o le omissioni delle politiche comunitarie. Dall’indulgenza nei confronti degli Ogm alla questione del crocifisso nelle aule scolastiche, fino agli sprechi per le sedi istituzionali. «Dopo essere entrato nell’Europarlamento e aver conosciuto i meccanismi che lo regolano mi è passato molto dello scetticismo che devo ammettere di aver nutrito nei confronti dell’Unione», precisa. «Ma è innegabile che a Bruxelles, tra inevitabili miopie e ottusità della burocrazia, aumenta ogni anno la difficoltà di armonizzare gli ingranaggi che regolano 27 mercati con storie e culture estremamente diverse».Per esempio cosa ne possono mai sapere gli europolitici olandesi, tedeschi o polacchi dell’esperienza che serve per gestire un tipico stabilimento balneare all’italiana? Eppure, nel silenzio quasi generale degli organi di informazione, a maggio è stata recepita in Italia la cosiddetta direttiva Bolkestein (dal nome dell’olandese Frits Bolkestein, commissario europeo per il Mercato interno della commissione Prodi). Una norma che con l’obiettivo di liberalizzare il mercato dei servizi in Europa ha imposto, tra le altre cose, che le licenze di sfruttamento delle spiagge di aree demaniali alla loro scadenza vengano messe a gara senza diritto di prelazione. In Italia la licenza scade ogni sei anni. Questo vuol dire che gli imprenditori turistici che si occupano degli stabilimenti balneari della Penisola – sono circa 12 mila, per 25 mila concessioni demaniali che coprono il 40% degli 8 mila chilometri di coste italiane – d’ora in avanti dovranno convivere con la spada di Damocle di non vedersi più assegnati i terreni arenili che hanno valorizzato negli anni con il proprio lavoro, magari investendo milioni di euro per la creazione di strutture e servizi come ristoranti, piscine e spa. La Fiba (Federazione italiana imprese balneari, che fa capo a Confesercenti), ha organizzato sit in e manifestazioni di protesta (se vi capita di passare per Viareggio vedrete issato sulle spiagge della cittadina versiliese un vessillo con due ombrelloni bianchi incrociati su fondo nero, alla maniera dei pirati: è il modo in cui gli imprenditori confederati nell’associazione Movimentobalneare.it dicono no alla direttiva Bolkestein). Così è riuscita a ottenere una proroga per l’attuazione della direttiva fino al 2015. «Inoltre per chi investirà nell’innovazione e nella riqualificazione della propria offerta la durata della concessione potrà essere prolungata fino a 20 anni», spiega Tullio Galli, direttore nazionale di Fiba. «Noi contestiamo il fatto che si sia creata una direttiva servizi per imporre in Italia un modello di turismo balneare che forse potrebbe andare bene in Norvegia. L’Europa, una volta soddisfatta la sua esigenza di vedere superato il principio del rinnovo automatico della concessione, deve lasciare spazio allo stato o alle regioni perché stabiliscano autonomamente le regole del futuro». Tra quelli con qualche conto in sospeso con l’Unione ci sono anche le compagnie telefoniche, che hanno dato un volto e un nome (anzi, un nomignolo) alla loro nemesi: Neelie “Steelie” Kroes, ovvero la donna d’acciaio delle telecomunicazioni europee. La Kroes ha da poco preso il posto di Viviane Reding alla testa della commissione per la Società dell’informazione, e ha subito deluso chi si aspettava un approccio più morbido al problema dei prezzi al consumatore del roaming internazionale. Non più di due mesi fa, infatti, alcuni dei principali operatori del Vecchio continente (Orange, Deutsche Telekom, O2 e Vodafone) hanno perso la causa intentata contro l’Unione alla corte di Giustizia di Lussemburgo. La vertenza riguardava il tetto imposto dall’Ue ai prezzi dei servizi telefonici nei paesi membri (0,49 euro al minuto per le chiamate in uscita, 0,24 per quelle in entrata, mentre senza restrizioni le tariffe toccavano tranquillamente quota 2 euro al minuto in entrambe le direzioni). E come non bastasse, una delle prime promesse che ha fatto la Kroes dopo la nomina riguarda un ulteriore abbattimento delle tariffe di roaming internazionale, laddove non sussistono costi che le giustifichino. Il primo traguardo è a luglio 2011, quando le chiamate in uscita costeranno 0,35 euro al minuto, mentre quelle in entrata 0,11. Ma l’obiettivo di Kroes è creare un unico grande mercato delle comunicazioni mobili, in cui non ci sia più differenza di prezzi una volta varcati i confini nazionali. Per i colossi della telefonia, Tim compresa, c’è poco da stare allegri: centesimo dopo centesimo si sta assottigliando un mercato che stando alle stime di Bruxelles valeva nel 2007 la bellezza di 8,7 miliardi di euro. I consumatori, si dirà, d’ora in avanti chiacchiereranno di più grazie alle tariffe più vantaggiose, e il volume di chiamate sopperirà alla diminuzione del loro valore. Ma siamo proprio sicuri che la stragrande maggioranza di chi viaggia continuamente per l’Europa (immaginiamo soprattutto per lavoro, e con la reale necessità di parlare al telefono) si sia mai messa a lesinare sui minuti di conversazione?Bocconi amari anche per i golosi italiani, e ancor di più per gli allevatori, i pescatori e gli esercenti italiani. La nostra tradizione enogastronomica (Nutella a parte) sembra uno dei bersagli preferiti della legislazione comunitaria. È ancora tabù, per esempio, la pajata, l’intestino tenue di vitello che l’Unione europea mise al bando insieme con la bistecca fiorentina quando nel 2001 scoppiò la sindrome della Bse, la mucca pazza. La fiorentina è riuscita a riguadagnarsi il suo posto a tavola, mentre la pajata pare non avrà la stessa fortuna nemmeno nei prossimi anni. E le telline e i cannolicchi? Sono specialità destinate a scomparire dai mercati ittici per via di una direttiva che obbliga i pescherecci a usare reti dalle maglie più larghe per limitare la cattura del pescato di piccole dimensioni, che rappresenta il sostentamento di animali più grandi. Risultato: addio rigatoni alla pajata e spaghetti alle telline. Ma fosse solo una questione di identità gastronomica. Secondo Coldiretti le troppe ingerenze dell’Unione e, al tempo stesso, la sua incapacità di tutelare i marchi a denominazione costano all’Italia ogni anno 30 miliardi di euro in esportazioni mancate. Sergio Marini, presidente dell’associazione degli imprenditori agricoli, spiega che «sulla quasi totalità degli alimenti non è riportata l’origine geografica del prodotto agricolo con cui sono stati realizzati. E questo perché, in nome del libero mercato, la Commissione ha respinto più volte le leggi sull’etichettatura proposte dal parlamento italiano nel corso degli anni. Un ulteriore problema è l’omologazione di procedure di produzione di prodotti tradizionali, dovuta al fatto che nei paesi del Nord Europa vige una diversa cultura alimentare». Ed ecco che si commercializzano vini realizzati facendo fermentare frutti come lamponi e ribes e formaggi fatti con caseinati invece che con latte fresco. Tutti comunque equiparati ai nostri prodotti tipici. Molti avranno sentito parlare del famigerato Parmesan, ma esistono, solo per citarne alcuni, anche il Parmezan e il Barbera bianco rumeni, la Fontina svedese, il Cambozola tedesco, la palenta montenegrina e la pasta Milaneza portoghese. «Nel mondo c’è un giro di affari di 60 miliardi di euro generati dalle imitazioni del vero cibo made in Italy», continua Marini. «Noi esportiamo prodotti agroalimentari per 20 miliardi di euro, ma con controlli più stringenti sull’origine geografica delle materie prime potremmo tranquillamente ottenere un fatturato più che doppio». Un’utopia? Coldiretti guarda con fiducia ai nuovi poteri che ha acquisito il Parlamento europeo, grazie ai quali gli euronorevoli diventeranno codecisori delle iniziative intraprese dalla Commissione. Per il momento, buon Parmesan a tutti.