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L’Italia non è un Paese per infermi, soprattutto se appartenenti a fasce a basso reddito. La fotografia sviluppata dal rapporto RBM-Censis in occasione dell’ultimo Welfare Day mostra chiaramente che il Servizio Sanitario Nazionale sarà sempre meno in grado di garantire l’accesso ai servizi a tutela della salute, come nell’articolo 32 della nostra Costituzione, rispettando i principi di equità, universalità e uguaglianza che trovano, nell’attuale assetto, applicazione secondo modalità quanto meno discutibili. L’Italia è sempre stata tra i primi al mondo per il servizio sanitario, dato confermato anche da una recente ricerca Bloomberg , che ci piazza in un onorevolissimo quarto posto per efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, davanti anche al Giappone, alla Corea, e ai Paesi del Nord Europa. Tuttavia esistono dei fattori legati alla longevità degli italiani che stanno compromettendo l’equilibrio. Abbiamo un primato in Europa per longevità, ma anche per prevalenza di anziani rispetto ai giovani, calcolati in misura di 168 su 100. Quest’anno gli ultrasettantenni erano più degli under 30, e nel 2030 saranno 5 milioni gli anziani che avranno bisogno di supporto. Non solo per affrontare infermità insorgenti, magari legate alla senilità, ma soprattutto per le malattie croniche. Nel passato, patologie diffuse come il diabete o l’ipertensione spesso si rivelavano letali, mentre oggi si cronicizzano, richiedono cioè cure costanti e prolungate nel tempo, con evidente aggravio della spesa sanitaria, pubblica o privata che sia.
Il rapporto RBM-Censis in effetti registra un significativo aumento, dal 2006 al 2019 (in proiezione) della fascia di popolazione non assistita dal SSN, che passa dal 2,5% del totale della popolazione al 14,5% (oltre 8 milioni di persone). Parallelamente, per coloro che rientrano nei parametri – sempre più restrittivi – che danno diritto all’assistenza sanitaria gratuita, si registra l’allungamento generalizzato delle liste d’attesa, dovuto al ridimensionamento di organici e strutture per esigenze di ottimizzazione delle risorse e risparmio sul bilancio dello Stato in ottemperanza alle indicazioni che arrivano da Bruxelles. Poi, il cosiddetto federalismo sanitario, diretta conseguenza del principio di sussidiarietà ribadito dalla modifica del Titolo V della Costituzione (nel 2001), ha lasciato alle Regioni ampia autonomia nell’organizzazione dei servizi sul proprio territorio. Le buone intenzioni del legislatore – e cioè portare l’organizzazione del servizio più vicino possibile al destinatario – si fermano però di fronte alle singole politiche locali e alla creazione di fatto di un servizio pubblico che varia nei parametri di erogazione, nella qualità delle prestazioni, nei tempi d’attesa e nei costi in maniera evidente da regione a regione, attivando il fenomeno, sempre più frequente, dei cosiddetti “migranti della salute”. Nel 2018 ha interessato il 41% dei pazienti oncologici, per motivi legati alla qualità delle cure nel 51% dei casi.
Come reagiscono gli italiani? Con un sempre maggior ricorso alla sanità privata da un lato, ma anche con la rinuncia alle cure nei casi più estremi: per il 2019 il rapporto Rbm-Censis prevede picchi di astensione dalle terapie per malati cronici (47,8%) residenti in particolare al Sud e nelle isole (48,8%), con reddito fino a 15 mila euro/anno (33,8%). Dal 2013 al 2018 si è registrato inoltre un aumento del 9,1% nel ricorso al capitale privato per pagare la sanità. Nel 2018 in particolare gli italiani hanno chiesto prestiti per l’ammontare di oltre 97 mila miliardi di euro, di cui il 16% destinato a cure mediche. Per come è messa l’economia nazionale (e parimenti europea), il ricorso a risorse finanziarie proprie per garantirsi una salute decente è comunque destinato ad aumentare. La società di servizi alle imprese Kpmg ha recentemente calcolato che la spesa pubblica per la salute della popolazione, che nel 2017 è stata di 114 miliardi di euro, nel 2023 aumenterà solo di poco (117), mentre la sanità privata, che ha interessato nel 2017 40 miliardi di euro, tra soli quattro anni si porterà a 65 miliardi, realizzando una crescita di oltre il 50%. Anche considerando la presenza consolidata di colossi come Unipol, che ha chiuso il 2017 con poco meno di 600 milioni di euro di premi, il ramo sanitario è un tavolo imbandito cui non mancano posti a sedere: nel 2023 ci saranno diversi miliardi di euro in più per le compagnie attive nel settore pur mantenendo invariata la quota di penetrazione delle polizze sanitarie nella società italiana (15%). Che, va ricordato, è comunque indietro rispetto alla media europea, che è del 51%.