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«La società ha bisogno di imprenditori»

Di persone che abbiano il coraggio di proporre un’innovazione di rottura. Perché l’economia di mercato come la conosciamo ha mostrato i suoi limiti e l’organizzazione del lavoro va completamente cambiata. Parola di Stefano Zamagni che da anni sostiene il paradigma di un business etico

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Alti tassi di disoccupazione, potere d’acquisto dei salari in caduta libera, forbice sempre più ampia tra ricchi e poveri, un’economia che non accenna a uscire dalla stagnazione. Vent’anni anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino, se qualche studioso od opinionista avesse osato dipingere in questi termini il futuro dei cosiddetti Paesi occidentali, sarebbe stato preso per pazzo.

Accantonata la visione marxista dell’economia e della società, le sorti dell’umanità sono state affidate al mantra dell’economia politica, quel pensiero capitalista uscito vittorioso dalla guerra fredda, divenuto ancora più radicale con la successiva affermazione delle teorie neoliberiste. Oggi la realtà che viviamo è ben diversa da quella prospettata allora. Anzi, più passano gli anni, più la situazione pare volgere al peggio.

I sostenitori dell’economia politica farebbero bene dunque a porsi qualche interrogativo sulla bontà delle proprie formule. Ed è, in effetti, quello che sta iniziando ad accadere. A pensarlo è Stefano Zamagni, economista italiano, professore ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, diversi anni di insegnamento alla Bocconi di Milano alle spalle, nonché presidente dell’Agenzia per il terzo settore dal 2007 sino alla sua soppressione, nel 2011.

Zamagni sostiene da anni il paradigma dell’economia civile, un’economia sì di mercato, ma il cui fine è il raggiungimento del bene comune e non del bene totale, come insegna invece la dottrina capitalista.

«Per i pensatori dell’economia politica il sistema può funzionare benissimo anche se una parte della popolazione è esclusa dalla distribuzione dei suoi benefici. La storia ci insegna però altro: con l’avvento della società post industriale, il fallimento di questo modello di pensiero è sotto gli occhi di tutti. A mio modo di vedere, il fine ultimo dell’agire economico deve essere il bene complessivo della società: se una parte del meccanismo si inceppa, tutto il sistema non può che risentirne negativamente. Non è casuale il fatto che l’economia civile sia oggi guardata con molta più simpatia di quanto non avvenisse solo qualche decennio fa. Pensi che il Dizionario di economia civile, che ho scritto nel 2009 a quattro mani con Luigi Bruni, è stato tradotto in sei lingue, dallo spagnolo al francese, dal tedesco al coreano. L’interesse per i temi sollevati nel libro è sempre più diffuso».

In effetti, il sistema camerale italiano ha avviato da tempo un osservatorio sull’economia civile, “Le giornate di Bertinoro sull’economia civile”, che quest’anno taglieranno a ottobre il traguardo della quindicesima edizione, fanno sempre il pienone. E lo scorso anno è nata a Incisa Valdarno, nel fiorentino, la Sec, la scuola di economia civile, promossa da realtà come Banca Etica, le Banche di Credito Cooperativo, le Acli e Federazione Trentina della Cooperazione: organizza corsi di management in tutto il Paese, per gli imprenditori, ma anche nella pubblica amministrazione, nel mondo della scuola. «Le richieste sono in continuo aumento, segno che tanti dirigenti d’impresa si sono resi conti che il capitalismo, così come è stato applicato sino a oggi, non ha più futuro», dice Zamagni, che ricopre il ruolo di presidente del comitato scientifico d’indirizzo.

ZAMAGNI CALDEGGIA DA ANNI IL MODELLO

DELL’ECONOMIA CIVILE, UN’ECONOMIA SI’ DI MERCATO,

MA IL CUI FINE E’ IL BENE COMUNE

E NON IL BENE TOTALE, COME INSEGNA

INVECE LA DOTTRINA CAPITALISTA

Partiamo proprio da qui, allora: dove ha fallito, secondo lei, il paradigma dell’economia politica? È evidente che l’economia politica, il cui successo è stato legato in maniera indissolubile al processo di industrializzazione, non sia più in grado di dare le risposte adeguate ai principali problemi che la società contemporanea si trova ad affrontare. Il suo paradigma è obsoleto, non fa più presa. Il testo su cui si fonda la dottrina, La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, è stato pensato e scritto nella società inglese di fine ‘700, la culla dell’industrializzazione. Prima di Smith, altri cattedratici avevano elaborato un pensiero sistemico sull’agire economico. Come Antonio Genovesi, titolare della prima cattedra di Economia della storia, istituita a Napoli nel 1754, il padre dell’economia civile. Genovesi sostenne la necessità per l’attività economica di poggiarsi su virtù civili, di operare ponendoci come fine il bene comune, piuttosto che la ricerca di soddisfazioni individuali. Le sue idee, che ai tempi ebbero anche fortuna, furono però poi soppiantate dal pensiero di Smith e dal successo del modello di sviluppo britannico nel mondo.

Quali sono, dunque, i problemi che il capitalismo oggi non è in grado di affrontare? Innanzitutto l’aumento delle diseguaglianze, un fenomeno divenuto endemico: l’1% della popolazione mondiale controlla il 50% della ricchezza prodotta in tutto il pianeta. Un manager guadagna 500 volte di più rispetto a un suo dipendente, mentre solo qualche decennio fa le differenze salariali non andavano oltre i 50 punti. La questione è preoccupante non solo da un punto di vista etico ma anche, e questo è forse il punto più importante, sotto il profilo economico. I consumi stanno crollando, lo vediamo qui in Italia in modo drammatico, e se andiamo avanti così, l’assenza di domanda finirà per distruggere l’economia di mercato, che ha in essa, infatti, la sua unica fonte di nutrimento. Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty, pubblicato nel 2013, è un best seller mondiale proprio perché mette bene in luce le anomalie della concentrazione e distribuzione della ricchezza avvenute negli ultimi 250 anni.

I manager vengono sì pagati di più, ma in fondo il loro ruolo all’interno dell’organizzazione dell’impresa è sempre più centrale. Certo, ma oggi i manager non sono più capaci di governare le aziende, perché applicano principi gestionali che funzionavano nella società industriale. Il management fondato sui capisaldi dell’economia politica fa buchi da tutte le parti: lo dicono i più celebri professori delle business school del mondo, da Henry Mintzberg a Michael Porter. A Harvard, da quattro anni, il piano accademico contempla un corso di Humanistic management: vorrà pur dire qualcosa. Nonostante questo, tante scuole ancora continuano a insegnare metodi di gestione ispirati all’economia politica, che funzionavano prima ma ora non più. Viviamo nella fase dell’economia della conoscenza, l’impresa per avere successo deve innovare in continuazione. Per questo deve puntare sulle teste, sul pensiero: le macchine non innovano, eseguono. L’organizzazione del lavoro va profondamento cambiata, il taylorismo non è più applicabile, perché non aiuta l’imprenditore a fare innovazione.

Qual è il suo consiglio per chi oggi vuole fare impresa? Avere il coraggio di osare. Un altro problema che l’economa capitalistica ci lascia in eredità è, infatti, un tasso di imprenditorialità molto basso. Le aziende continuano a morire, le nuove imprese sono sempre di meno e, oltretutto, hanno in genere vita breve. L’imprenditore è uno che rischia, perché quando inizia non può mai sapere come andrà a finire la sua avventura. Il manager invece no. Per questo abbiamo bisogno di imprenditori, di persone che abbiano l’ardire di iniziare un cammino senza sapere quale sarà l’esito. Il manager gestisce l’innovazione di processo e prodotto. Il bravo imprenditore, invece, deve saper proporre un’innovazione di rottura. In Italia oggi manca purtroppo questa vocazione: i manager sono tanti, gli imprenditori sempre meno.

OGGI I MANAGER NON SONO PIU’ CAPACI

DI GOVERNARE LE AZIENDE

PERCHE’ APPLICANO PRINCIPI GESTIONALI

CHE FUNZIONAVANO

NELLA SOCIETA’ INDUSTRIALE

MA SONO ORMAI OBSOLETI

Nonostante i tanti scandali degli anni passati, l’economia parla però sempre il linguaggio della finanza e non pare sia intenzionata ad abbandonarlo. La rendita finanziaria è il cancro dell’economia di mercato, perché toglie risorse ai nuovi investimenti. Il sistema dovrebbe combattere contro le rendite a favore dei profitti e dei salari. La perdita del potere salariale è vergognosa, uno scandalo, la nostra società non può permettersi di pagare così poco i giovani lavoratori, bisogna essere consapevoli che così non si va da nessuna parte. L’economia politica ha finito per dare un potere immenso alla finanza. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Come si esce allora da questa situazione, quali sono le soluzioni per porre fine alle difficoltà che viviamo oggi? Basterebbe applicare i principi dell’economia civile, operare tenendo conto che il fine deve essere sì il mio interesse, ma sempre insieme a te, ovvero senza prescindere dal tuo coinvolgimento. L’agire economico non può essere separato dall’etica, come sostengono i teorici dell’economia politica, perché si occupa di persone, del benessere della collettività: le due sfere devono invece continuare a dialogare. La celebre frase “Business is business” è demenziale.

Quali sono le regole per governare al meglio le relazioni umane all’interno dell’azienda? L’unico modo per far partecipare un dipendente in maniera attiva alla vita dell’azienda è il coinvolgimento. Pensare di poter estorcere il suo contributo è solo controproducente: i controlli costano tanto e servono a poco. L’azienda può trarre solo un vantaggio dalla creazione di un’alleanza strategica con i suoi collaboratori: per farlo, tra l’altro, le motivazioni devono essere non solo legate alla remunerazione, ma anche al riconoscimento del ruolo e del merito. In questo senso l’Italia ha la fortuna di poter vantar precedenti illustri, come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei. Per fortuna tanti imprenditori stanno cambiando registro in questi anni, soprattutto quelli di nuova generazione.

In Italia i posti di vertice delle imprese continuano a essere gestiti nella maggioranza dei casi dagli uomini. Le donne oltretutto sono pagate in media meno dei colleghi maschi. La mancata valorizzazione del ruolo femminile all’interno del sistema imprenditoriale è un’altra occasione mancata. La loro partecipazione rimane troppo marginale e a subirne le conseguenze è tutto il sistema Paese. L’organizzazione del lavoro non può invece di permettersi di escludere le donne. Eppure questo continua ad accadere: prevale ancora oggi un modello di pensiero di vecchio stampo, che blocca in tanti casi la loro carriera alla posizione di quadro. Le donne invece sono più acculturate e produttive. Hanno un livello di relazionalità molto più spiccato rispetto agli uomini. Nelle loro decisioni prevale spesso un senso dell’equità, che permette di riconoscere a ciascuno quello che realmente si merita o no. Inoltre, caratteristica fondamentale in un Paese come l’Italia, sono molto meno impermeabili alla corruzione: il loro reservation price è molto più alto e scoraggiante così per i corruttori. Come scriveva Platone nel Fedro: «Il solco sarà diritto, e il raccolto sarà abbondante, se i due cavalli che trainano l’aratro procedono alla medesima velocità». Ecco, un’impresa, per funzionare al meglio, ha bisogno di due cavalli in grado di operare nelle stesse condizioni per funzionare, uno di sesso maschile l’altro femminile.

Un’ultima domanda sulla riforma organica del terzo settore, varata lo scorso anno dal Governo. Qual è il suo giudizio? Sono molto soddisfatto, anche perché il testo legislativo ha recepito idee che sostengo con forza da tanti, troppi anni. Finalmente il terzo settore è riconosciuto come un soggetto economico a pieno titolo e, dunque, una componente strategica del sistema Italia. Con la revisione del titolo II del Codice Civile, uno dei punti centrali della riforma, il terzo settore non dovrà più dipendere dallo Stato o dalla generosità dei privati, ma potrà agire come qualsiasi altra impresa, pur nel rispetto delle finalità sociali del suo operato. Il non profit potrà finanziare i propri fini di utilità sociale attraverso lo svolgimento di attività commerciali. Il nuovo impianto normativo assegna così al terzo settore il suo giusto ruolo, la sua capacità di creare valore, a differenza della filantropia, figlia non a caso del pensiero capitalista. Stiamo parlando di un mondo che già oggi pesa quasi il 5% del pil italiano, che dà lavoro a 680 mila persone. L’unico, tra l’altro, capace di crescere nel periodo della crisi, con un trend del 28% negli ultimi dieci anni. Valorizzarne il ruolo economico, non potrà che aiutare il Paese ad uscire dalla crisi.

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Professore ordinario di Economia politica all’Università di Bologna, Stefano Zamagni ha insegnato per diversi anni alla Bocconi di Milano ed è autore, con Luigi Bruni, del Dizionario di economia civile. È stato inoltre presidente dell’Agenzia per il terzo settore dal 2007 al 2011 © LaPresse