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Sartoria Tirelli: «Vestiamo i vostri sogni»

Fondato nel 1964, l’atelier è assurto a riferimento dei costumisti di tutto il mondo. Merito della bravura dei suoi tagliatori, della collezione unica di capi storici, ma anche di un gruppo di amici che…

Nello spettacolo, Tirelli rappresenta un’istituzione: non c’è addetto ai lavori che non apprezzi gli abiti da mille a una notte della sartoria, il suo sconfinato magazzino, la maestria delle sue tagliatrici. Quello che, forse, è meno noto è la storia di grande amicizia imprenditoriale nascosta dietro al suo successo. Quando, infatti, nel 1964, Umberto Tirelli abbandonò il business familiare del commercio del vino per dedicarsi alla sartoria, fu aiutato e sostenuto finanziariamente da alcuni amici: persone di differenti provenienze professionali, che condividevano con lui il desiderio di dare corpo ai sogni del pubblico. Il successo non tardò ad arrivare e, non appena ne ebbe la possibilità, Tirelli promosse sul campo gli amici a soci.

Dal cinema all’opera

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Con il tempo, il gruppo finì per diventare la sua famiglia d’elezione, tanto che quando nel 1990 Tirelli si ammalò, decise di lasciare nelle loro mani il destino della società. In particolare, chiese al socio e amico Dino Trappetti di assumerne la direzione, anche se questi non aveva mai preso un vestito in mano. «Non nutro per gli abiti quel piacere feticistico che contraddistingueva Tirelli», ammette Trappetti. I suoi talenti erano, infatti, la comunicazione e le pr, unite a un indubbio gusto per l’arte e l’architettura. Il passaggio di testimone fu delicato ma anche qui, a fare la differenza, furono di nuovo altri amici: quei costumisti, nati in seno alla Tirelli e diventati ormai famosi, che mantennero il loro rapporto preferenziale con la sartoria.

Com’è stato farsi carico di tale responsabilità? È stata una vera tegola sulla testa! Temevo di non avere la forza di portare avanti la società. È stato decisivo l’aiuto di amici e costumisti, come Pietro Tosi, Pier Luigi Pizzi, Gabriella Pescucci: mi sono stati vicini, sostenevano che bisognava andare avanti perché Tirelli desiderava la continuità. Dissero: «Non ti preoccupare, i costumisti li facciamo noi: tu non devi né disegnare, né tagliare e cucire». Hanno continuato a preferirci, un po’ per simpatia un po’ in forza del nostro taglio, e questo mi ha facilitato molto il lavoro.

Cos’ha di particolare il vostro taglio?Tirelli ha sempre investito molto sui tagliatori e le tagliatrici, e seguiva sempre il taglio originale: a volte, addirittura, disfaceva vestiti autentici per vedere com’erano realizzati. Inoltre non ha mai lesinato sulla qualità, sapeva che quegli abiti sarebbero diventati il patrimonio della società. È merito di questa filosofia se, oggi, abbiamo capi realizzati 50 anni fa, che possono essere ancora usati e lavorati. A mia volta, ho mantenuto tale impostazione: preferisco non guadagnare quando si confezionano vestiti nuovi, rappresentano la nostra “riserva aurea”.

La fama internazionale del vostro magazzino ne è una prova…Abbiamo 170 mila costumi, di cui almeno 10 mila vestiti autentici. A loro volta, tra questi ci sono 500 pezzi storici: abbiamo abiti appartenuti alla contessa di Castiglione, alla regina Carolina Bonaparte, molti di Casa Savoia, per non parlare della collezione unica al mondo di abiti del ‘700 da uomo. In continuità con Tirelli sto portando avanti questa ricerca.

Che differenza c’è tra collezionare un abito e farlo vivere?Farlo vivere vuol dire usarlo o esporlo in mostre. Ancora oggi continuiamo a ricevere donazioni immense: stilisti e privati sanno che con noi i costumi continuano ad avere visibilità e vengono portati in tutto il mondo. L’ultima donazione è stata di 80 capi che comprendono abiti di Capucci, Ysl, Ungaro…

IL MAGAZZINO VANTA ANCHE ABITI

DELLA CONTESSA DI CASTIGLIONE

E CAROLINA BONAPARTE

Quando, secondo lei, è riuscito ad accreditarsi come degno erede di Tirelli agli occhi dell’intero mercato?

Nel 1994, quando Gabriella Pescucci vinse l’Oscar per L’età dell’innocenza. I produttori rivalutarono l’Italia e iniziarono ad arrivare da noi in massa. La vittoria del 1994 ha anche rappresentato la vera spinta internazionale del nostro business sotto la mia direzione.

Tirelli ha sempre avuto un respiro internazionale: in che percentuale le commissioni sono destinate all’estero?Il 40%-50%. Sono molti i costumisti stranieri che apprezzano il nostro materiale: tra questi, Sandy Powell (Cenerentola), premiata con tre Oscar, e Ann Roth che vinse con Il paziente inglese. Quanto all’Italia, lavoriamo molto con l’opera, un po’ meno con il cinema. Il settore ha attraversato un periodo di crisi dove, alle grandi storie in costume, si è preferito racconti più intimisti, un po’ per mancanza di idee un po’ per mancanza di talenti. Ora qualcosa sta cambiando, grazie alla bravura di registi come Garrone, Virzì, Salvatores, Sorrentino.

Crede che il costume possa funzionare da leva occupazionale ed economica?In termini occupazionali, sicuramente. Quanto alla ripresa, si sa che la cultura paga. Noi italiani ce ne dimentichiamo troppo spesso… Tanti registi vorrebbero girare da noi, ma l’Italia costa cara. Bisognerebbe aiutare le produzioni. Qualcosa si è fatto con l’introduzione della detassazione degli investimenti, che sta attirando player stranieri.

Credits Images:

Dino Trappetti, alla guida della Sartoria Tirelli